Mercoledì 24 Aprile 2024

È l’ora dell’addio alle mascherine Torna il piacere (perduto) del bacio

Da domani il volto non sarà più coperto. Il linguaggio delle labbra e della passione esaltato dai poeti

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di Roberto

Pazzi

Cosa m’è mancato di più durante i mesi della pandemia, arreso alla serrata? Ma la carne, certamente la carne! E della carne il fiore, il bacio. Ne ho scritto la riscoperta in alcuni versi, quei giorni: "Il tempo sospeso di un bacio, non conto più i minuti ad occhi chiusi. E mi appare come potrebbe essere tutta la vita se non finisse mai lo spavento della felicità". Tutti abbiamo riscoperto il bene di cui godevamo ignari, nella carne tremula desiderosa di carezze e baci, quando non si potevano più donare.

E tutti abbiamo allora capito perché avesse un senso aver creduto già prima quali fossero i più bei versi della letteratura, studiati a scuola: "Questi, che mai da me non fia diviso, la bocca mi baciò tutto tremante". Versi nei quali Dante ferma l’eternità dov’è Francesca da Rimini, dannata all’inferno, per sigillarla in un bacio che dura all’infinito e che ancora oggi ci commuove per quel balbettio di b e di t che copiano il tremito della carne. Ma in quegli anni, al liceo, ci aveva già fatto emozionare la poesia delle nugae di Catullo, con i suoi baci a Lesbia. Quando ne leggevamo, dopo il monito sulla brevità della vita "nobis cum semel occidit brevis lux nox est perpetua una dormienda", noi dopo che sarà spenta l’effimera luce dovremo dormire una notte eterna: "Da mihi basia mille, deinde centum dein mille altera, dein secunda centum". Dammi mille baci poi cento, poi ancora mille e poi di nuovo cento.

Questa folle contabilità della passione ci folgorava di una verità la cui capienza era troppo presto per "capere", usando il verbo capire alla latina. Ma bruciava già, cogliendo una verità regalata dal passato, che aveva bucato il nostro futuro. Era l’età in cui leggevamo di nascosto, la notte, con la pila sotto le lenzuola, i libri che non si dovevano leggere, come La noia di Moravia, Il prete bello di Parise, Il tropico del cancro e Il tropico del capricorno di Miller, dove correvamo a prefigurare la felicità della carne, arresa alla gioia dei sensi, nella sorpresa di scoprire che i classici l’avevano già dipinta come Moravia, Parise ed Henry Miller, ma con una misura più aurea. E capivamo che i baci infiniti di Catullo venivano dalla potenza dell’implacabile dio Eros, che Saffo aveva già evocato, seicento anni prima, dedicati a una fanciulla del suo tiaso: "Scuote l’anima mia Eros, come vento sul monte che irrompe verso le querce; e scioglie le membra e le agita dolce amara indomabile belva".

E così le diverse declinazioni dell’amore cominciavano a venirci incontro, dandoci una ragione di certi turbamenti che già provavamo su quel versante incerto. Dovevamo più tardi, in età più matura, capire i versi di Sandro Penna, che anche di quel diverso amore aveva cantato l’estasi "Questo corpo che stringo (e mi stringe) ha sapore di fango e di stelle".

Ma doveva essere Saba a farmi emozionare come per i baci di Francesca da Rimini, con L’addio: "Senz’addii m’hai lasciato e senza pianti; devo di ciò accorarmi? Tu non piangevi perché avevi tanti, tanti baci da darmi durano sì certe amorose intese quanto una vita e più. Io so un amore che ha durato un mese, e vero amore fu". E dopo Saba, Sereni con i versi di Mille miglia, che mi ripeto a memoria, quando sono felice: "Per fare il bacio che oggi era nell’aria quelli non bastano di tutta una vita". Nel cinema nessuno ha elevato un inno al bacio così poetico come Tornatore in Nuovo cinema paradiso, con quel finale dei film castigati restituiti al loro primitivo splendore nella scena dei baci tagliati.