"Due mesi di arresto: è un marito petulante"

L’uomo non voleva separarsi dalla compagna e l’assillava con messaggini. Non è stalking, ma per l’invadenza è stato condannato

Esterno del Palazzo di Giustizia, sede della  Corte suprema di Cassazione

Esterno del Palazzo di Giustizia, sede della Corte suprema di Cassazione

Attenti, per favore: si può essere condannati anche per ‘petulanza’. È accaduto a un 49enne di Novara già riconosciuto colpevole in appello, condanna di due mesi confermata dalla Cassazione. I sommi giudici hanno stabilito che i suoi infiniti messaggi spediti alla moglie (dalla quale non voleva separarsi) non costituivano vero e proprio stalking ma, appunto, erano "petulanti", e quindi rientravano nell’orbita del reato di disturbo alle persone.

La moglie, per la verità, non mancava di rispondere anche con insulti piuttosto coloriti, ma – hanno sentenziato i giudici – si trattava di una semplice "reazione al comportamento del marito". Ora apriamo le finestre, diamo luce alle stanze e togliamo la polvere da questo termine un po’ ottocentesco di ‘petulanza’. I giudici hanno rimarcato che, in giurisprudenza, con questo termine si intende "un modo di agire pressante e indiscreto" o "un atteggiamento di arrogante invadenza e di intromissione continua e inopportuna nella altrui sfera di libertà".

Siamo sicuri che tutti, prima o poi, hanno incontrato una persona petulante, cioè insistente, fastidiosa, importuna, che si intromette di continuo a sproposito, che interviene su ogni cosa, che si ostina a ripetere sempre le stesse cose, nonostante le avessimo fatto capire che ci sta asfissiando o, come dicono i giovani, ci sta asciugando. Attenzione, si tratta di una versione assai raffinata e perciò più insidiosa della semplice, rozza, banale maleducazione.

Perché il petulante non insulta, non alza la voce, non offende: si limita ad aggrapparsi alla manica quando te ne stai andando, è quello che ti ferma in corridoio, "hai un momento?" e poi ti trattiene per mezz’ora, ripetendo sempre lo stesso, identico concetto. È lo sconosciuto commensale che ti trovi accanto e che per tutta la durata della cena ti parla: 1) del suo cane; 2) della sua bici; 3) del suo abbonamento a Reader’s Digest. In questi casi le vie di salvezza sono soltanto due: darsi alla fuga oppure fingersi morti.

Una volta, per la verità, c’era questo vieto luogo comune di attribuire la petulanza alle donne – ma ormai non si può più dire che spesso le donne sono petulanti, cioè chiacchierano ininterrottamente di argomenti fatui, che confabulano in piccoli eccitati capannelli all’uscita delle scuole, che gloglottano con voluttà, anche per decine di minuti, di tinte per capelli, smalti per unghie, marche di borse. Non si può più dire e, perdinci, non saremo certo noi a farlo.

Per fortuna a sfatare questo risibile cliché è venuto proprio il caso dell’asfissiante novarese: dunque la petulanza è equamente distribuita tra tutti i generi, Lgbtq+ compresi. A prescindere dal sesso, infatti, si tratta di una semplice norma di buona creanza che sembrerebbe intuitiva: mai dare fastidio agli altri.

Ma i petulanti sono esseri egocentrici che vivono in un solipsismo totale: dominati dalle loro ossessioni, non si curano della sensibilità altrui, per loro il prossimo è un confessionale muto e impotente in cui rovesciare le proprie fisime. Contro di loro non serve lo spray urticante, men che meno alzare le mani (lo so, difficile resistere alla tentazione ma suvvia, siamo forti): dopo la sentenza della Cassazione la soluzione è semplice. Chiamate i carabinieri.