Dite la verità Natale con i tuoi era una tortura

Giorgio

Comaschi

Da almeno ventanni sentiamo dire: "Che disastro il Natale! Non vedo l’ora che finisca. Non ne posso più, per fortuna tra poco tono a lavorare!". Oppure: "Io lo abolirei, è una tragedia, in casa sono tutti schizzati, fuori non si gira, l’ansia dei regali. Si mangia come delle bestie. Basta, non ce la posso fare!". Dite la verità, quante volte l’avete sentito? O forse anche detto? Adesso, appena è balenato che non si poteva fare il pranzo o il cenone di Natale, tutti sono insorti, in un’ondata di indignazione planetaria. "Sono impazziti? Se ci tolgono anche il pranzo di Natale è la fine!". Ma come. Ma se dicevi che non ne potevi più, che era un cataclisma, che non vedevi l’ora che le feste finissero! Ma se ti abbiamo visto affranto (o affranta), distrutto, con lo sguardo disperato, nervoso come una biscia, insofferente, disperatamente alla ricerca di un momento per stare da solo. Il termine più usato per il Natale in questi anni è stato senza dubbio il "Dumaròn" emiliano, tutto attaccato, detto con enfasi, quasi con rabbia, o anche con senso di rassegnazione, di resa. E allora perché? Perchè adesso se manca il pranzo di Natale dici che è la fine? A parte che non si è capito bene da subito: non si può fare, si può fare in quattro, poi solo coi congiunti stretti, poi in sei, poi adesso in dieci. Ma sul fatto di non capire, ultimamente, si viaggia alla grande. Sull’altare della "tradizione" (da dire facendo l’agghiacciante segno delle due ditine nell’aria per indicare virgolette) sei pronto a metterti a tavola con persone che non hai visto tutto l’anno, con qualcuno che ti sta anche sulle scatole, dopo aver comprato regali per parenti che conosci di vista (la suocera della suocera della suocera), con bambini ululanti sotto il tavolo, strafogandosi di cibo fino a star male (chissà poi perché), sorridendo e brindando a chi siamo. E’ dopo il problema. E’ quando ti ritiri di là distrutto, per la pennica, che ti interroghi veramente su chi siamo.