Disperso dopo un attacco a Mariupol L’ex calciatore che combatte i russi

Ivan Luca Vavassori è figlio dell’imprenditrice lombarda rapita dalla ’ndrangheta nel ’97. Gli amici: "È vivo"

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di Giovanni Chiodini

BUSTO ARSIZIO (Varese)

Disperso ma vivo, nella città martire di Mariupol, dopo un violento attacco russo che ha fatto strage dei suoi commilitoni. Sono ore d’angoscia per familiari e amici del 29enne Ivan Luca Vavassori, figlio adottivo dell’ex presidente della squadra calcistica varesina Pro Patria, Pietro Vavassori, e di Alessandra Sgarella, sequestrata dalla ’ndrangheta nel dicembre 1997. Calciatore, è un portiere che ha vestito le maglie delle squadre di serie C del Bra, Pro Patria e Legnano, è andato a combattere a fianco del popolo ucraino sin dai primi giorni di guerra, di lui non si avevano notizie certe da domenica: chi ha l’incarico di seguire i suoi profili social ieri, in serata, ha postato rassicurato: "La sua squadra è ancora viva". In mattinata un messaggio drammatico: "Ci dispiace informare tutti che questa notte, durante la ritirata di alcuni feriti dall’attacco a Mariupol, due convogli sono stati distrutti dall’esercito russo. In uno di questi, presumibilmente, c’era Ivan con il quarto reggimento".

Un post seguito nel pomeriggio dall’ultimo aggiornamento: "La squadra di Ivan è ancora viva, stiamo provando a portarli indietro. Il problema è che sono circondati dalle forze russe, così non sappiamo quando o quanto tempo impiegheranno per tornare indietro. Ci sono 5 morti e 4 feriti, ma non sappiamo i loro nomi. La nostra squadra migliore sta provando a riportarli indietro ma non sappiamo il numero dei nemici e il tipo di truppe".

A Ivan Luca Vavassori, che era nato in Russia a pochi chilometri da Mosca, la notizia della guerra in Ucraina aveva destato un grande sdegno: "Essere nato in uno Stato non significa farne parte. Sono nato in Russia, ma non sono russo". Pochi giorni dopo l’inizio del conflitto si era presentato al consolato ucraino a Milano per chiedere di unirsi alla Legione straniera per la difesa territoriale dell’Ucraina. "È una decisione difficile, però può salvare delle vite. Non lasciamoli soli, hanno bisogno di noi" scriveva. Il 5 marzo è in volo verso la Polonia e da lì al confine con l’Ucraina il passo è breve. "Avrei pensato di fare di tutto nella vita, ma mai di rimettermi una uniforme". La prima destinazione è dalle parti di Kiev. Il suo nome di battaglia è capitano Rome (Aquila nera) perché mette sempre un adesivo nero sui suoi caricatori. A fine marzo si sposta a sud, il 23 scriveva: "Morire venti anni prima o venti anni dopo poco importa. Quello che importa è morire bene. Soltanto allora inizia la vita".

Sono seguiti altri giorni di combattimenti: "Sto bene. Sono in un posto sicuro, l’altro giorno qualcuno per strada a Kiev a provato ad accoltellarmi, ma gli è andata male" sono le sue parole lo scorso primo aprile. E solo otto giorno dopo: "Vi piace quello che vedete? (riferito alle immagini dei morti trasmesse anche dalle tv nazionali, ndr). A me ha fatto vomitare e piangere per giorni. Non siamo eroi o super uomini, siamo fottuti soldati. Che devono uccidere o essere uccisi. Siamo carne da macello". "Certe decisioni ti trasformano in killer, peró la guerra non ti permette di poter decidere. Non ho potuto decidere. Peró mi sento distrutto. Vedere i miei compagni morire così distrugge e non riesco a dimenticare i loro volti. Fottuta guerra...". Poi più nulla.