Delitto di via Poma, un enigma lungo 30 anni

Il 7 agosto 1990 a Roma viene massacrata in ufficio la giovane Simonetta Cesaroni. Sospetti, suicidi, processi per un omicidio senza colpevole

Simonetta Cesaroni: aveva 20 anni quando fu uccisa in via Poma

Simonetta Cesaroni: aveva 20 anni quando fu uccisa in via Poma

La ragazza della foto, costume bianco, abbronzata, aria rilassata, pare guardare al futuro con innocente sicurezza. La foto di Simonetta Cesaroni è l’icona di un enigma lungo trent’anni, infinito e mai risolto, di una storia di morte, misteri, dubbi, suicidi, voci anonime, piste nel vuoto. In quel mese di agosto del 1990 galleggiano ancora le note dell’inno dei mondiali di calcio, ‘Un’estate italiana’. Per settimane le voci aspre di Gianna Nannini e Edoardo Bennato hanno promesso ‘notti magiche’, illuminate dai gol di Totò Schillaci, ragazzo dello Zen palermitano, e dai suoi occhi spiritati per la gioia. Alle amministrative di maggio la Lega Nord ha conquistato il 4% dei voti in campo nazionale, mentre in Lombardia si è issata al 18,9%, superando il Pci (18,8%) e dietro la Dc (28,6%). La liberazione di Cesare Casella e quella di Carlo Celadon, prigionieri per due anni sull’Aspromonte, hanno segnato la fine della stagione dei sequestri di persona.

Roma, la sera del 7 agosto, martedì. Simonetta Cesaroni, figlia di un macchinista della metropolitana e di una casalinga, ha vent’anni. Lavora come segretaria alla Reli Sas, uno studio commerciale che ha fra i suoi clienti l’associazione italiana alberghi della Gioventù. Al suo ultimo giorno di lavoro prima delle ferie, è impegnata al computer per chiudere i conti nell’ufficio dell’Aiag. È sola nei locali al numero 2 di via Carlo Poma, quartiere Prati, terzo piano della scala B. Tra le 17.30 e le 18.30 qualcuno suona, entra. A casa aspettano Simonetta, sempre più allarmati, alla fine disperati. In via Poma arrivano la sorella Paola, il fidanzato, Salvatore Volponi, datore di lavoro di Simonetta, il figlio di quest’ultimo. Alle 23,30 entrano nell’ufficio dopo avere aperto con le chiavi portate da Giuseppa De Luca, moglie di Pietro Vanacore, il portiere dello stabile. Il corpo seminudo di Simonetta è stato trafitto da 29 colpi, inferti probabilmente con un tagliacarte. Porta ancora i calzini bianchi. Il top e il reggiseno sono sollevati. Spariti gli slip, la giacca, i fuseaux blu, così come non si trovano gli orecchini, un anello, un bracciale, un girocollo, tutti d’oro. L’orologio è rimasto al polso. L’assassino ha lavato il pavimento e in parte anche il corpo, forse per portarlo via in un secondo momento.

Raniero Busco, fidanzato della vittima, è il primo a essere interrogato. Racconta che il giorno prima dell’omicidio lui e Simonetta hanno avuto un rapporto. Il suo alibi regge, non ha addosso neppure un piccolissimo taglio, inevitabile per chi maneggia un coltello in una colluttazione. Il 10 agosto il primo di una serie infinita di colpi di scena: viene fermato Pietro, Pietrino, Vanacore, il portiere del palazzo. Il Riesame lo mette fuori venti giorni dopo: il sangue che aveva sui pantaloni è il suo e non quello della segretaria assassinata. Un giallo italico non può che evocare certe ombre. Di legami oscuri con i servizi segreti si vocifera per Roland Voller, un personaggio che entra in scena nell’aprile del ‘92.

È austriaco, latitante nel suo Paese per bancarotta fraudolenta. Coinvolge Federico Valle, giovane nipote dell’architetto novantenne Cesare Valle, che ha disegnato l’edificio di via Poma e ci abita. Voller è amico della madre e sostiene che secondo la donna il figlio sarebbe tornato sporco di sangue da una visita al nonno. Il 16 giugno 1993 il gip Antonio Cappiello proscioglie Valle per non avere commesso il fatto e Vanacore perché il fatto non sussiste. Altri sussurri descrivono l’ufficio di via Poma come un luogo di copertura dei servizi.

Nel 1994 una lettera anonima fa il ritratto di una Simonetta diversa, appassionata navigatrice sul Videotel, fino a quando non sarebbe incappata, inconsapevolmente, nel suo assassino. Si fa avanti il mitomane di turno che sostiene di avere riconosciuto in Simonetta una interlocutrice del Videotel che si firmava con lo pseudonimo ‘Veronica’. Tempo e indagini sprecati prima di scoprire che il pc da lavoro (l’unico a cui la ragazza aveva accesso) non era collegato alla rete.

Il 20 agosto 2005 muore Claudio Cesaroni, il padre. Due anni dopo l’ex fidanzato Raniero Busco, ormai quarantenne, marito e padre di famiglia, viene iscritto nel registro degli indagati per omicidio volontario. Tracce di saliva con il suo codice genetico sono state trovate sul corpetto indossato dalla vittima. Sul seno sinistro sono state fotografate piccole escoriazioni, poi attribuite a un morso ritenuto compatibile con l’arcata dentaria dell’indagato. O almeno queste sono state le conclusioni dei consulenti del pm. Il processo inizia il 3 febbraio 2010. Raniero si è rivolto a Vanacore: "Lui che sa non mi aiuta". L’ex portiere, chiamato come testimone, si ritrova sotto i riflettori. Ha cercato pace in Puglia, la sua terra natale. Il 9 marzo 2010 si uccide annegandosi in mare, in una pozza di un metro e mezzo d’acqua, a Torre Ovo, frazione di Torricella, nel Tarantino. Lascia un messaggio disperato: "Venti anni di sofferenza e sospetti portano al suicidio". Ancora tre giorni e sarebbe stato ascoltato nell’aula bunker di Rebibbia.

Il 26 gennaio Raniero Busco viene condannato a ventiquattro anni di reclusione, ma rimane a piede libero. Il 27 aprile 2012 la sentenza di secondo grado ribalta e annulla tutto con un’assoluzione piena per non avere commesso il fatto. La Cassazione conferma l’assoluzione il 26 febbraio del 2014. Definitivo. Un delitto senza colpevole.