Debole, schiava della burocrazia e in ritardo Così l’Europa di Ursula ha fallito sui vaccini

Il fatto che la sanità sia materia nazionale non ha permesso all’Unione di affrontare subito l’emergenza. E altri ne hanno approfittato

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di Elena Comelli

Alle prese con una terza ondata della pandemia e con le tensioni in aumento tra i Paesi membri, i Ventisette hanno promesso durante il vertice europeo di giovedì di rilanciare sia la produzione che le somministrazioni di vaccini nel secondo trimestre. Le difficili condizioni in cui versa l’Europa, però, contrastano fortemente con la situazione degli Stati Uniti, dove le vaccinazioni proseguono veloci, e di altri Paesi del mondo che ormai stanno uscendo dall’incubo del Covid-19, a partire da Israele, dove la gente è tornata a fare una vita normale, con le spiagge e i ristoranti pieni.

Cosa è andato storto? L’Europa ha scontato alcune lentezze burocratiche, ma anche un problema politico di fondo, e cioè il fatto che l’Unione Europea non è un governo nazionale e non ha alcuna responsabilità sulla politica sanitaria dei Paesi membri. La politica sanitaria è esclusiva responsabilità degli Stati nazionali, troppo piccoli per trattare in ordine sparso con le case farmaceutiche. Anche per questo con grande cautela rispetto ai colleghi americani e britannici e il blocco europeo si è mosso con estrema lentezza nelle trattative con le case farmaceutiche. Già a dicembre, quando gli Usa si preparavano alle prime inoculazioni, la Ue stava a guardare. Da allora, il gap tra Ue e Usa non ha fatto altro che allargarsi.

Nel frattempo, l’allarme dovuto ai rari casi di emorragie cerebrali in soggetti vaccinati ha causato lo stop temporaneo delle somministrazioni di AstraZeneca, facendo perdere altro tempo alla campagna vaccinale europea. Risultato: ad oggi soltanto il 14% degli europei ha ricevuto una prima dose di vaccino, mentre gli americani sono arrivati al 23% e il Regno Unito è ormai a quota 39%. Israele non teme confronti, con la metà della popolazione vaccinata.

Un’altra differenza è l’entità della spesa, sempre da ricondurre al fatto che la sanità non rientra in alcun modo nel bilancio dell’Unione Europea. Lo scorso giugno, Bruxelles aveva annunciato acquisti di vaccini per 3,2 miliardi di dollari. A Washington, il budget era oltre tre volte tanto, 10 miliardi. La consapevolezza di utilizzare fondi dei contribuenti dei singoli stati ha messo in grave difficoltà i negoziatori europei. Il primo accordo con AstraZeneca risale ad agosto, mesi dopo gli Usa. "In una crisi emerge sempre che la Ue non è una nazione equipaggiata per combattere unita", ha commentato Jacob Kirkegaard, del Marshall Fund tedesco.

Salta all’occhio anche il problema delle esportazioni, che è stato trattato nel vertice europeo di giovedì, con forti contrasti fra i vari Paesi. Secondo i dati comunitari, dal 1° dicembre scorso l’Unione ha esportato 77 milioni di dosi verso una quarantina di Paesi terzi, di cui 21 milioni verso la Gran Bretagna, mentre 88 milioni di dosi sono state ripartite tra i Ventisette e solo 62 milioni di dosi sono state amministrate. In pratica, sono state esportate più dosi di quelle somministrate ai cittadini europei. Eppure non tutti sono d’accordo sulla stretta alle autorizzazioni all’export di vaccini decisa da Bruxelles. Italia e Francia sono favorevoli, mentre altri – come il Belgio, la Svezia e anche l’Olanda – sono più freddi, perché temono tra le altre cose di mettere a repentaglio il loro ruolo nella logistica. Verso il Regno Unito, ad esempio, sono partiti 11 milioni di vaccini da febbraio, ma nessuno in direzione opposta. Ora il Regno Unito avrebbe bisogno di aiuto dall’Unione per garantire la seconda dose del vaccino a 26 milioni di britannici, ma oltre a bloccare l’export verso Paesi terzi, Bruxelles vorrebbe anche costringere il Regno Unito a esportare a sua volta verso l’Europa. Ammesso che le resistenze interne non prevalgano.