
Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea Le contro tariffe del Vecchio continente saranno applicate in tre tranche
Il respiro delle Borse dopo tre giorni di profondo rosso per la crisi dazi rischia di avere il fiato corto. Nulla più di un decoroso riposizionamento in Asia (Tokyo +6%, Shanghai +2%) ed Europa (Milano e Madrid +2,4%, Francoforte e Parigi +2,5%, Londra +2,7%), mentre Wall Street, dopo rialzi diffusi, già si allinea ai dubbi odierni (DJ -0,8%, S&P -1,6%, Nasdaq -2,1%), quando scatteranno i nuovi dazi alla Cina ribellatasi alla Casa Bianca. In assenza di schiarite, l’impressione degli operatori è che si ballerà ancora parecchio.
L’Europa prepara il suo bazooka anti tariffe ma, acrobaticamente, prova a tenerlo con una mano sola, destinando l’altra ad addizioni negoziali (non ancora intavolate). "Diciamo che vogliamo parlare", è la linea di Palazzo Berlaymont. Bruxelles si attende che Washington cooperi. Altrimenti la risposta sarà dura oltre ogni attesa. La pazienza dell’esecutivo Ue e dei Paesi membri appare già al limite. Nel corso della cabina di regia odierna sotto l’egida della Commissione guidata da Ursula von der Leyen, i rappresentanti tecnici dei governi nazionali voteranno le prime contromisure all’offensiva commerciale degli Usa. Le contro tariffe saranno applicate in tre distinte tranche: 15 aprile, 16 maggio e 1° dicembre. La gradualità significa mano tesa per trattare. Ma se Trump non la stringesse, sono pronte tutte le opzioni, inclusa la madre di tutte le ritorsioni: la chiusura del mercato unico alle imprese americane (votabile a maggioranza qualificata), arma ben più afflittiva di una banale maggiorazione della Web Tax a Google &Co. Da oggi anche il Canada applicherà dazi del 25% su alcuni modelli di auto Usa. Il neo premier Mark Carney non vuol saperne di arrendersi. E lo dimostra. Secondo Trump, "quasi 70 Paesi" sono in coda per trattare. Ma non la Cina.
La guerra tariffaria con Pechino è quella che preoccupa maggiormente analisti e investitori. Perché il Dragone ha la stazza per ingaggiare un corpo a corpo con Washington. Ricapitolando: fino a mercoledì scorso la Cina pagava già dazi del 20% sulle proprie esportazioni negli Stati Uniti. Dal Giardino delle rose, The Donald ha alzato le barriere a Pechino di un altro 34% (totale 54%). A questo punto Xi Jinping ha reagito. Venerdì scorso il Consiglio di Stato cinese ha annunciato dazi aggiuntivi del 34% su tutti i beni provenienti dagli Stati Uniti. Pari e patta? No, perché lunedì Trump ha risuonato la grancassa: da oggi maggiorerà i dazi alla Cina di un altro 50% (con imposizione totale del 104%) se Pechino non ritirerà il suo 34%. Ambizione mal riposta. E difatti ora è Washington, preoccupata di altre mazzate dalle Borse, a inseguire la controparte, mentre all’Europa chiede di acquistare energia. Il presidente Trump crede che "la Cina debba trovare un accordo" e "sarà magnanimo", è la goffa apertura della portavoce Katerin Leavitt.
La sensazione che il passo fatto contro la Cina sia fuori misura unisce cinici banchieri e folgorati dal trumpismo. Tra i suggeritori della sterzata sui dazi figura infatti persino Elon Musk, il first buddy improvvisamente avvelenato col gran capo. Declinante nell’inner circle trumpiano, ma tuttora l’uomo più ricco del mondo oltre che numero uno del Doge (il Dipartimento protagonista di tagli federali indiscriminati), Mr X non apprezza più la Casa Bianca. Perché, dal suo bipolare punto di vista, un conto è licenziare figure apicali o dipendenti di agenzie federali per il supposto bene comune, un altro è assistere alla distruzione della propria ricchezza personale per il sell-off sui mercati. I timori di nuove batoste spingono così Musk ad attaccare Peter Navarro, il consigliere al commercio di Trump, grande sponsor dei dazi. "Un vero idiota – lo definisce il neo Doge –. Più stupido di un sacco di mattoni". "Sono ragazzi...", prova a smorzare la Casa Bianca. Ma il clima di rissa è già lampante.