Mercoledì 24 Aprile 2024

Dai tombaroli al tesoro perduto Ritrovata la stanza degli schiavi

Padre e figlio scavarono cunicoli per arrivare ai reperti: condannati. E così il loro lavoro ha facilitato la scoperta

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di Nino Femiani

Un periscopio emerge dagli abissi dei secoli. E osserva, con l’occhio degli archeologi, un mondo scomparso, cancellato dall’eruzione del 79 dopo Cristo a Pompei. Un passato che viene alla luce, pietra dopo pietra, grazie al lavoro appassionato della Soprintendenza, ma anche a un’incredibile congiunzione astrale. La città sommersa di Civita Giuliana, che oggi incanta perché scatta fotografie a ripetizione sull’umanità distrutta da fuoco, ceneri e lapilli del Vesuvio, è il frutto di un caso unico, scaturito da un mix di passione e crimine: il "divertissement" di un proprietario terriero dalla nobile casata e l’avidità dei suoi fittavoli, una famiglia di tombaroli che intravede occasioni di business anche sottoterra.

Le prime scarne notizie di Civita Giuliana, suburbio dell’antica città di Pompei che oggi restituisce la "stanza degli schiavi", un tesoro che fa capire la vita di duemila anni fa dalla parte degli ultimi, si hanno a inizio del Novecento, quando il marchesino Giovanni Imperiali, che ha sposato la figlia di un ricco latifondista vesuviano, si dedica, un po’ per passione e un po’ per sfuggire alla noia della vita di campagna, a un’attività di scavo su concessione dell’allora ministero della Pubblica Istruzione. La sua iniziativa porta alla luce 15 ambienti riferibili a due settori di una villa, uno residenziale e l’altro produttivo. Tra le due guerre il marchese, a causa delle cagionevoli condizioni di salute, vende tutti i reperti allo Stato che li espone nell’Antiquarium, poi bombardato e distrutto. Ma la leggenda dei tesori ancora nascosti si tramanda di fittavolo in fittavolo, fino a quando Giuseppe e Raffaele Izzo, padre e figlio, con la finestra di casa affacciata proprio su quel pezzo di terra già "indagato" dal marchesino decidono di fare le cose sul serio. Per mesi, per anni costruirono gallerie sotterranee con rinforzi metallici fino ad arrivare alla villa, l’area più ricca. Ma proprio quando – e siamo al 2017 – si leccano i baffi e pensano di aver fatto il colpo del secolo, ecco che gli piombano addosso le forze dell’ordine che mettono fine alla loro carriera di "topi archeologi" (denuncia e condanna a tre anni). Il boccino passa alla Soprintendenza di Pompei che mette a segno eccezionali risultati, uno dopo l’altro. Lo scenario è quello di una sontuosa villa con ambienti riccamente affrescati e arredati, splendide terrazze affacciate sul golfo di Napoli e Capri, un annesso ed efficiente quartiere di servizio, con l’aia, i magazzini per l’olio e per il vino, terreni fittamente coltivati, e le stalle.

Nuove pagine arricchiscono i libri di storia archeologica: parlano dei resti di cavalli bardati, del maestoso carro da cerimonia (forse proprio quello tanto cercato dai tombaroli padre e figlio anche se qualcuno sussurra che ne avessero già trovato uno simile), della stanza affrescata di una bambina, della piccola "mummia", fino all’umile stanza dove vivevano gli schiavi stallieri. È questa l’ultima folgorante scoperta, quella più sorprendente perché restituisce a tutti noi la "vita degli ultimi". Dentro quel bugigattolo ci sono tre letti di corde e legno con i segni evidenti delle stuoie che li ricoprivano, il vaso da notte ancora accanto ai giacigli, mentre tutto intorno lo spazio è occupato da attrezzi di lavoro: il timone del carro che era subito fuori, i finimenti dei cavalli, grandi anfore accatastate.

"Una scoperta eccezionale, perché davvero è rarissimo che la storia restituisca i particolari di queste vite", si accalora il direttore del Parco Archeologico Gabriel Zuchtriegel. Se il grande carro cerimoniale a quattro ruote fa immaginare la ricchezza e la munificenza dei proprietari, la "stanza degli schiavi" ci trasferisce l’emozione di vite miserabili, e racconta la precarietà delle classi più esposte della società romana. Lo scavo ci restituisce la cruda realtà delle cose, la storia di schiavi che eseguivano ogni tipo di attività lavorativa immaginabile nelle domus e nel periodo dell’impero potevano avere come unica ricchezza solo quella di poter vivere con la loro famiglia.