Giovedì 18 Aprile 2024

"Da poliziotto davo la caccia alle Br Ora scrivo gialli, il metodo è lo stesso"

Il commissario De Franchi è l’astro nascente del noir italiano. Uno dei suoi romanzi è stato tradotto in otto lingue

di Alessandro

Belardetti

"Tra un mese compirò 60 anni e andrò in pensione: così, finalmente (ride, ndr) potrò dedicarmi soltanto alla scrittura". Il commissario capo alla Digos di Livorno, Marco De Franchi, è l’astro nascente del noir italiano. "Dopo tanta gavetta, sono arrivato in Serie A", dice. Dalle fatiche nella squadra Biagi, a caccia dei killer brigatisti di D’Antona e del giuslavorista bolognese, agli anni trascorsi allo Sco (l’Fbi italiana), fino alle indagini in Toscana: a breve il poliziotto romano consegnerà pistola e distintivo per dedicarsi alla passione di una vita.

Lei non si definisce “un poliziotto scrittore”, ma “uno scrittore poliziotto”. Quali punti in comune ci sono tra i due Marco?

"Da sempre ho sognato di diventare uno scrittore, e ci ho provato. Poi sono entrato in polizia. Ma è un lavoro che non ti dà sosta, così per dieci anni non sono riuscito a produrre nulla. Lo scrittore e il poliziotto hanno tanti aspetti in comune: entrambi devono dipanare la realtà che hanno davanti, svelando i misteri".

Ha usato mai trucchi da scrittore per preparare le informative di polizia?

"Capitava, certo. Uno era il cliffhanger, in narrativa è quando si svela un piccolo mistero alla fine di un capitolo, lasciando in sospeso a quale sviluppi porterà. Nell’informativa, dove descriviamo come abbiamo trovato l’autore di un reato, mettevo l’elemento più importante alla fine, così da esaltare il magistrato nel momento giusto".

La mente creativa l’ha aiutata a risolvere gialli giudiziari?

"Mi ha aiutato a vedere i casi da diversi punti di vista, non fissandomi solo su una teoria. Una volta indagavamo sul terrorismo tra Bologna e Firenze col ‘gruppo Biagi’ e stavamo intercettando persone che credevamo colluse. Queste parlavano in termini criptici: "Spostiamo il re", "Abbiamo gli elmi", "Porta lo scudo". Io, che sono un po’ nerd, ho ipotizzato che si trattasse di un gioco di ruolo e nella perquisizione questa idea è stata confermata".

Il lavoro a caccia dei brigatisti le ha ispirato il romanzo ‘La carne e il sangue’. Quali sono i momenti chiave di quegli anni con la divisa?

"È stato il momento più intenso della mia carriera. Feci sei mesi a Bologna, poi andai a Firenze dopo l’arresto dei brigatisti. Mi colpirono queste BR di ultima generazione perché erano formate da sociopatici veri. Negli anni ‘70-’80 i brigatisti per quanto folli avevano seguaci, questi no. A Firenze partecipai all’arresto del killer di Biagi, Roberto Morandi. La famiglia non sapeva nulla della sua doppia vita: quando la moglie andò a trovarlo in carcere e chiese spiegazioni, lui rispose: ‘L’ho fatto perché sarò da esempio per milioni di persone’. Lui viveva la sua vita borghese e sparò alle spalle di un professore, mi colpì la sofferenza dei famigliari".

L’investigatore per definizione non ha paura. Ma di cosa De Franchi aveva paura?

"Quando lavoro non ci penso. Durante un’indagine antimafia, stavamo per fare un blitz contro un ‘ndranghetista nell’hinterland milanese. Ecco, in quel momento ho cominciato a pensare: e se mi succede qualcosa?".

Il suo ‘La condanna dei viventi’ è stato acquistato in 8 Paesi. Qual è il suo segreto?

"In realtà sono stato fortunato a trovare un’agente letteraria molto brava. Gli editori stranieri dicono che l’opera ha un respiro internazionale, sulla scia di Faletti".

I critici la accostano a Dan Brown e Thomas Harris. Si sta montando la testa?

"Harris mi ha ispirato: lo stile, il labirinto senza uscita dell’investigatore e il ritmo angosciante. Se avrò successo, farò di tutto per non diventare snob".

Ha vissuto molto in Toscana: Livorno, Pisa, Massa.

"Dopo lo Sco a Roma sono stato alla Mobile di Pisa e ora alla Digos di Livorno. Tornare a lavorare sul territorio mi ha fatto piacere, significa vivere le indagini. Allo Sco, invece, vai ad aiutare i colleghi locali".

Qual è stato il suo successo professionale?

"A livello di team, partecipare alla cattura degli assassini di D’Antona e Biagi. Dal punto di vista personale, aver scoperto gli autori di una rapina del 2012 a Pisa, in cui i banditi vennero da Napoli e spararono in faccia a un’automobilista che passava lì per caso. Creammo una task force e per due anni lavorammo tra Pisa e Napoli con intercettazioni, false piste e testimoni: alla fine li arrestammo tutti".

Il lavoro dell’investigatore può coesistere con l’impegno di una famiglia con due figli?

"Se vuoi fare il poliziotto al massimo livello, devi avere una famiglia che ti sopporti. Quando ero allo Sco il mio bimbo lo incontravo ogni tre settimane: lui pensava che io vivessi sul treno, perché mi vedeva sempre là sopra. Dovevo compiere una scelta, così feci domanda di trasferimento a Pisa".