di Alessandro Belardetti "Tra un mese compirò 60 anni e andrò in pensione: così, finalmente (ride, ndr) potrò dedicarmi soltanto alla scrittura". Il commissario capo alla Digos di Livorno, Marco De Franchi, è l’astro nascente del noir italiano. "Dopo tanta gavetta, sono arrivato in Serie A", dice. Dalle fatiche nella squadra Biagi, a caccia dei killer brigatisti di D’Antona e del giuslavorista bolognese, agli anni trascorsi allo Sco (l’Fbi italiana), fino alle indagini in Toscana: a breve il poliziotto romano consegnerà pistola e distintivo per dedicarsi alla passione di una vita. Lei non si definisce “un poliziotto scrittore”, ma “uno scrittore poliziotto”. Quali punti in comune ci sono tra i due Marco? "Da sempre ho sognato di diventare uno scrittore, e ci ho provato. Poi sono entrato in polizia. Ma è un lavoro che non ti dà sosta, così per dieci anni non sono riuscito a produrre nulla. Lo scrittore e il poliziotto hanno tanti aspetti in comune: entrambi devono dipanare la realtà che hanno davanti, svelando i misteri". Ha usato mai trucchi da scrittore per preparare le informative di polizia? "Capitava, certo. Uno era il cliffhanger, in narrativa è quando si svela un piccolo mistero alla fine di un capitolo, lasciando in sospeso a quale sviluppi porterà. Nell’informativa, dove descriviamo come abbiamo trovato l’autore di un reato, mettevo l’elemento più importante alla fine, così da esaltare il magistrato nel momento giusto". La mente creativa l’ha aiutata a risolvere gialli giudiziari? "Mi ha aiutato a vedere i casi da diversi punti di vista, non fissandomi solo su una teoria. Una volta indagavamo sul terrorismo tra Bologna e Firenze col ‘gruppo Biagi’ e stavamo intercettando persone che credevamo colluse. Queste parlavano in termini criptici: "Spostiamo il re", "Abbiamo gli elmi", "Porta lo scudo". Io, che sono un po’ nerd, ho ipotizzato che si trattasse di un gioco di ...
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