di Angelo Costa Forse non esagera uno dei suoi campioni più amati, Beppe Saronni, quando sostiene che la storia di Ernesto Colnago andrebbe raccontata nelle scuole. Perché è la storia di un grande italiano. Partito da apprendista a tredici anni e diventato simbolo mondiale: non c’è celebrità su questo pianeta alla quale l’Ernesto non abbia confezionato una delle sue biciclette. Se lo chiamano Maestro, se lo hanno definito il Benvenuto Cellini delle due ruote (copyright Gianni Brera), se l’Onu lo ha appena premiato come ambasciatore della bici è perché nei suoi novant’anni, che festeggia mercoledì alla Bocconi di Milano fra ministri, ex premier e docenti universitari, condensa le qualità migliori di un artigiano: innovatore, rivoluzionario, precursore, oltre che diplomatico e stratega di marketing. Un signore d’altri tempi con lo sguardo rivolto in avanti. Con una ricetta vincente, la più semplice: esser sempre se stesso. Colnago, sono novant’anni: voltandosi all’indietro cosa vede? "La storia. Il destino ha voluto che ne scrivessi un po’ anch’io". Quando ha capito di esser nato per fare le bici? "Dopo una caduta alla Milano-Busseto. Lavoravo già alla Gloria, avevo iniziato a 13 anni falsificando i documenti perché ci voleva un anno in più. Con me c’era un ragazzo che avrebbe poi fatto l’attore, Gian Maria Volontè. Quando mi feci male, dissi al titolare che potevo dare una mano anche da casa, sistemando le ruote. Mi accorsi che in cinque giorni guadagnavo più che in un mese: convinsi mio padre a trovarmi un locale per allestire un’officina. Cominciai in una stanza di cinque metri per cinque col camino davanti all’osteria del mio paese, Cambiago". Partì tutto da lì. "Montavo bici per la Gloria, mi facevo pagare con materiale tecnico: serviva per le riparazioni ai clienti, con le quali guadagnavo e per realizzare i primi telai con mio fratello Paolo, ...
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