Giovedì 25 Aprile 2024

Da meccanico a stilista della bici "Misi in sella anche papa Wojtyla"

L’epopea del primo costruttore delle due ruote: "Iniziai in officina a 13 anni, con me c’era Gian Maria Volontè" "Feci vincere campioni come Magni e Merckx. A 90 anni dico all’Italia: realizzare le idee, più coraggio"

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di Angelo

Costa

Forse non esagera uno dei suoi campioni più amati, Beppe Saronni, quando sostiene che la storia di Ernesto Colnago andrebbe raccontata nelle scuole. Perché è la storia di un grande italiano. Partito da apprendista a tredici anni e diventato simbolo mondiale: non c’è celebrità su questo pianeta alla quale l’Ernesto non abbia confezionato una delle sue biciclette. Se lo chiamano Maestro, se lo hanno definito il Benvenuto Cellini delle due ruote (copyright Gianni Brera), se l’Onu lo ha appena premiato come ambasciatore della bici è perché nei suoi novant’anni, che festeggia mercoledì alla Bocconi di Milano fra ministri, ex premier e docenti universitari, condensa le qualità migliori di un artigiano: innovatore, rivoluzionario, precursore, oltre che diplomatico e stratega di marketing. Un signore d’altri tempi con lo sguardo rivolto in avanti. Con una ricetta vincente, la più semplice: esser sempre se stesso.

Colnago, sono novant’anni: voltandosi all’indietro cosa vede?

"La storia. Il destino ha voluto che ne scrivessi un po’ anch’io".

Quando ha capito di esser nato per fare le bici?

"Dopo una caduta alla Milano-Busseto. Lavoravo già alla Gloria, avevo iniziato a 13 anni falsificando i documenti perché ci voleva un anno in più. Con me c’era un ragazzo che avrebbe poi fatto l’attore, Gian Maria Volontè. Quando mi feci male, dissi al titolare che potevo dare una mano anche da casa, sistemando le ruote. Mi accorsi che in cinque giorni guadagnavo più che in un mese: convinsi mio padre a trovarmi un locale per allestire un’officina. Cominciai in una stanza di cinque metri per cinque col camino davanti all’osteria del mio paese, Cambiago".

Partì tutto da lì.

"Montavo bici per la Gloria, mi facevo pagare con materiale tecnico: serviva per le riparazioni ai clienti, con le quali guadagnavo e per realizzare i primi telai con mio fratello Paolo, che ho avuto sempre al mio fianco". L’incontro che le ha cambiato la vita?

"Nel 1955 Giorgio Albani mi invitò a pedalare con Fiorenzo Magni, che pochi giorni dopo avrebbe corso il Giro. Ci fermammo a una fontana, il campione toscano aveva dolore a una gamba: gli feci notare che era colpa delle pedivelle, montate male. Per sistemarle passammo dalla mia bottega, dove lui rifiutò di entrare: non porto la mia bici in quel bugigattolo, disse. Poi si convinse, ripartì e fece un intero allenamento senza fastidi. Il giorno dopo mi mandò a chiamare da un massaggiatore: mi offrì di seguirlo al Giro".

Iniziò così la serie di trionfi con le sue bici: quasi 60 titoli mondiali, 18 olimpici, oltre 800 successi. Molti di questi firmati Merckx.

"Un fenomeno, per me anche un maestro: mi chiedeva soluzioni tecniche inaccettabili, però vinceva sempre ed era difficile dirgli di no. La bici del record dell’ora di cinquant’anni fa, con catena e manubrio forati e tubi speciali, ha aiutato lo sviluppo dell’industria".

Restando in tema di tecnologia: Enzo Ferrari è un altro che le ha cambiato la vita.

"Lo incontrai perché mi ero messo in testa di fare un telaio al carbonio: mi disse che avevo un gran coraggio. Mi stupì parlandomi in brianzolo. Nacque una collaborazione durata trent’anni anche grazie al mio amico Luca di Montezemolo".

Cosa non dimentica di quella giornata?

"Due frasi di Ferrari. Ai suoi ingegneri spiegò che la bici era la macchina perfetta. E a me, che gli rivelai imbarazzato di aver già superato i 50 anni, disse: vergognati, è l’età in cui ho cominciato a fare le cose migliori. Ricordo soprattutto un consiglio: fai la forcella anteriore dritta. La disegnò su un tovagliolo al ristorante, mangiando mortadella. Tornai a casa, ci pensai su e la realizzai".

La vittoria che porta dentro? "Tutte. Di più la Sanremo del ’71 di Dancelli, che un italiano non vinceva da 17 anni: alla sera un giornalista, Bruno Raschi, mi consigliò di marcare le mie bici con l’asso di fiori, da allora il mio simbolo. Poi la Parigi-Roubaix del ’94, dopo una vigilia turbolenta perché i corridori non si fidavano a correre sul pavé con bici in carbonio e forcelle dritte: rassicurai l’amico Giorgio Squinzi che non ci sarebbero stati problemi, non cambiammo i telai e il giorno dopo Ballerini firmò un successo storico".

Ha fatto la bici a un Papa santificato.

"Sapevo che Karol Wojtyla era uno sportivo, gli preparai una bici da corsa laminata in oro. Andai a consegnargliela con la mia famiglia, lui disse ‘Peccato non poterla usare per le strade di Roma…’. Gliene preparai un’altra sportiva, la usava d’estate a Castelgandolfo: ora è al museo di Cracovia. La prima l’ho ricomprata, la tengo in casa perché è la bici di un santo"

E anche a un re.

"A Juan Carlos, che mi aveva invitato, portai la bici in Spagna. Mi parlò in italiano, non sapevo fosse nato a Roma".

Ne ha visti e incontrati tanti: chi avrebbe voluto conoscere?

"L’attore Robin Williams. Aveva dieci delle mie bici, una è appena andata all’asta per 250mila dollari. So che pedalava con Armstrong e gli diceva: io ho la Colnago, tu no".

La Colnago è arrivata in Russia, in Estremo Oriente, ovunque: come ha fatto?

"La storia non si compra, si fa con l’amore. Non conosco altra lingua che il brianzolo, ma ho girato il mondo: a chi mi chiedeva se fossi laureato, ho sempre risposto di aver fatto un’università speciale, quella della strada. A una festa benefica a Los Angeles dove fui invitato perché avevo donato una bici, non sapendo cosa dire ai medici presenti feci suonare ‘O Sole Mio’ e la cantai".

Perché le sue bici sono le più famose al mondo?

"Perché sono fatte con serietà, passione e, appunto, amore. A Natale un collezionista inglese mi ha donato un modello che avevo costruito apposta per lui 35 anni fa, con pezzi in oro: non l’ha mai usata, l’ha esposta in salotto come un’opera d’arte". Cos’è la bici?

"La mia vita. Un oggetto che puoi sempre migliorare: le bici non sono tutte uguali, quelle fatte con cura sono uniche. È anche divertimento e salute: usarla fa stare bene".

Colnago, alla sua età si danno buoni consigli: ne ha uno per il nostro Paese?

"Di avere il coraggio di fare le cose, di provare a realizzare le idee. Dicono che tra il dire e il fare ci sia di mezzo il mare, ma non è così: in mezzo c’è solo il saper fare".

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