di Matteo Massi "Se mi prendete Ancelotti, vinciamo lo scudetto". Quando Arrigo Sacchi nell’estate del 1987 lo disse ad Adriano Galliani, allora amministratore delegato del Milan, lui dubitò della sanità mentale del neo allenatore. "Ancelotti è uno che quando scende dalla macchina deve mettere le mani sotto la coscia per accompagnare fuori il ginocchio". Gli rispose Galliani, poi Berlusconi staccò un assegno da 5 miliardi e l’affare pensava di averlo fatto la Roma. Pensava, sbagliandosi. Maradona, qualche mese dopo, chiese a sorpresa allo stesso Sacchi: "Ma nel tuo Milan corre veloce anche Ancelotti?". E l’Arrigo gli rispose così: "No, pensa veloce". Ancelotti, a quasi 63 anni, pensa ancora veloce. Alla vigilia della sua quinta finale di Champions poi vinta e con cui è entrato definitivamente nell’Olimpo degli allenatori, ha detto: "Io osservo quello che è il calcio oggi, cercando di capire come sarà domani". Otto mesi fa l’avevano definito un bollito e Florentino Perez, il presidente del Real Madrid, che l’aveva chiamato ad allenare la squadra, un folle. Lui non ha fatto una piega. Al sentire pronunciare la parola bollito avrà pensato al carrello con le salse che, nella sua terra, l’Emilia, è qualcosa di sempre più introvabile, se non accettano (al ribasso) i compromessi culinari e si resta invece fedeli alle tradizioni. E lui il cordone ombelicale con la sua terra (Reggiolo, provincia di Reggio Emilia) non l’ha mai tranciato, anche se vive da anni in giro per il mondo e ha la residenza in Canada. Quando alcuni ultrà della Juventus gli scatenarono contro una campagna fatta di striscioni con la frase "Un maiale non può allenare", Carlo rispose così: "È una grave mancanza di rispetto nei confronti del maiale, un animale nobile". Guarda (avanti), passa e non si cura di loro. È abituato a cadere e a rialzarsi. Gli ...
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