Martedì 23 Aprile 2024

Craxi e Andreotti, mondi distanti. Ma uniti dai valori dell’Occidente

Convegno a Roma sui due statisti protagonisti della Prima Repubblica e della politica estera italiana. I rapporti col mondo arabo e palestinese, il fronte energetico, Sigonella e lo stile comunicativo

Giulio Andreotti (scomparso nel 2013) con Bettino Craxi (scomparso nel 2000)

Giulio Andreotti (scomparso nel 2013) con Bettino Craxi (scomparso nel 2000)

Da molti punti di vista non avrebbero potuto essere più distanti. Andreotti il "papalino", Craxi il "garibaldino", come li definisce l’editorialista Massimo Franco. Il democristiano romano, mai apertamente aggressivo, dall’ironia leggendaria e tuttavia considerato la mente luciferina della Dc. Il socialista milanese, "rampante" e brusco, il leader che negli anni ottanta impose la "grinta" al posto della tradizionale e un po’ ipocrita diplomazia democristiana. Una distanza che si rifletteva anche nello stile: sempre impeccabile, elegantissimo e mai anonimo Andreotti, fin troppo casual Craxi al punto da presentarsi in jeans in Quirinale per giurare come primo ministro per venire rispedito di corsa dal presidente Pertini a cambiarsi e ripresentarsi in veste più adeguata.

Nonostante l’immensa diversità, sono stati negli anni ’80 i pilastri della politica estera italiana nel suo momento di maggior successo, quando insieme, lavorando solo di diplomazia, avevano reso la penisola la vera potenza locale nel Mediterraneo. Di quella fase e del loro peso hanno discusso ieri in un convegno organizzato al Senato dalla fondazione Craxi storici, giornalisti, intellettuali assieme a Stefano Andreotti e Stefania Craxi, i figli dei due statisti. Un passaggio – fa notare quest’ultima – che va al di là della rievocazione: "Ora che si è depositata la polvere giacobina, si può parlare di un periodo che non fu solo un ’Romanzo criminale’".

In effetti, era tempo che l’ultimo scorcio della prima Repubblica smettessero di essere identificati solo con mazzette, tangenti e corruzione. Un forte atlantismo, "coniugato con dignità e grande indipendenza" per usare le parole della presidente della Fondazione, Margherita Boniver li ha uniti: sul fronte internazionale le differenze, se c’erano, riguardavano lo stile, non la sostanza. Andreotti fu d’accordo anche nella mossa più drastica dell’allora premier Craxi: quell’ordine, impartito ai carabinieri, di circondare a Sigonella i marines che circondavano a loro volta l’aereo che doveva portare in salvo il terrorista palestinese leader del gruppo responsabile del dirottamento della nave da crociera Achille Lauro e della morte di un passeggero statunitense. Il rapporto con i palestinesi, del resto, era sì sincero, al punto che Andreotti dichiarò una volta che se fosse stato palestinese avrebbe scelto anche lui la via del terrorismo, ma anche strategico: era una delle leve che permettano di oliare i rapporti con i paesi arabi. Quella politica si basava soprattutto su un rapporto con il mondo arabo e con i paesi mediorientali produttori di petrolio molto più stretto di quanto non gradissero, per ragioni politiche, gli americani e per ragioni di competizione energetica inglesi e francesi. Con il senno di poi non si può non concludere che quella linea fu vincente: "Volevano ritagliare un ruolo importante del nostro paese per la pace nel mondo", sottolinea Andreotti junior.

Nonostante scambi di battute al veleno, "come quel Belzebù affibbiatogli da Bettino – ricorda ancora Stefano – cui mio padre replicò con ’Craxi è una volpe, e prima o poi tutte le volpi finscono in pellicceria’" – il rispetto era profondo e sopravvisse allo tsunami di tangentopoli: "Fino all’ultimo – continua – papà cercò nei limiti delle sue possibilità di trovare una soluzione umanitaria per consentire a Craxi di curarsi in Italia". Allora l’eco di Tangentopoli era ancora troppo fragoroso perché ci riuscisse. Oggi forse inizia ad essere possibile valutare gli anni ottanta, gli anni di Craxi-Andreotti con maggiore lucidità e obiettività. Mentre gli storici concordano sul fatto che Bettino "fu vittima del sistema che voleva riformare", la figlia Stefania sorride amaramente: "Andò in Tunisia non solo perché temeva il carcere, ma aveva pure paura di essere ucciso in prigione". Sospira: "Dopo la sua morte in esilio – dichiara – Andreotti ha partecipato ad ogni iniziativa che ho fatto per mio padre".