De Rita: "Troppi errori sul Covid, paghiamo il conto"

Il sociologo misura la febbre dell’Italia: "Non andrà tutto bene. Nel Paese monta la rabbia, lo statalismo non è la risposta"

Flash mob a Milano (Ansa)

Flash mob a Milano (Ansa)

Roma, 3 giugno 2020 - Stiamo passando dalla paura alla rabbia? Dai balconi della solidarietà alle piazze della protesta, se non della rivolta? Giuseppe De Rita, fondatore del Censis, da molti decenni il rabdomante dell’Italia profonda con il suo annuale Rapporto, a 88 anni non ha certo voglia, se mai ne ha avuta, di analisi a effetto. E così la prima reazione è tra l’attesa e il disincanto: "Stiamo uscendo da una caverna, sorpresi, isolati gli uni dagli altri. È un’uscita random, non univoca, ognuno per sé e Dio per tutti. Il passaggio dalla paura alla rabbia c’è già stato. La rabbia viene dall’essere divisi. Ma vedremo nelle prossime settimane in che cosa si tradurrà questa molecolarizzazione spinta della società". Ma, appena il tempo di una pausa, e arriva anche l’avviso ai naviganti: "Quello che accadrà in autunno sul piano sociale e economico dipenderà molto dall’approccio del governo e dall’atteggiamento dei singoli. La retorica della guerra e oggi della ricostruzione sulla scorta di uno statalismo interventista, la chiamata alle armi al grido ’ne usciremo migliori’, la pratica del ’tutto chiuso’ e dei bonus a pioggia, la verticalizzazione delle decisioni non hanno aiutato e non aiutano il libero arbitrio e la libera iniziativa delle persone. Ma solo la libertà e la volontà di iniziativa dei singoli possono farci riprendere".

Teme il rischio di un autunno caldissimo da depressione post-Coronavirus? "Siamo in un momento d’ombra o, come dicono i musicisti, di levata e non di battuta. Un momento di sincope. E non è così importante quello che vediamo nelle piazze oggi. Ma contano due cose per evitare il peggio o il ripetersi degli errori: fare un esame di coscienza e ritrovare il libero arbitrio, anche contro le cogenze dei virologi".

A che cosa serve l’esame di coscienza? "Non è possibile gestire adeguatamente la fase attuale e quella successiva senza farci un po’ di domande. Per esempio: ha avuto senso parlare di guerra? I dati comunicati sono stati quelli giusti? Perché è stato considerato normale chiudere tutta l’Italia quando l’epidemia ha riguardato in sostanza tre regioni? Ebbene, secondo me non c’è stata nessuna guerra, abbiamo vissuto un’epidemia nella quale, in fondo, solo il distanziamento sociale ha avuto una funzione. Ma la modalità della gestione complessiva è passata attraverso una verticalizzazione del potere (sulla figura del Presidente del consiglio, sulla Protezione civile, sul Cts) che ha avuto ricadute ben oltre quello che era necessario".

L’emergenza sanitaria, però, è stata drammatica. "Certo. E infatti la verticalizzazione del potere è stata inevitabile in qualche modo. Ma da noi, a differenza di altri Paesi, si è andati oltre l’indispensabile dell’ambito sanitario: e il rischio è che questo modello statalista permanga anche nella gestione dell’emergenza economica e sociale. E questo amplierebbe i rischi depressivi".

Quali segnali di questa tendenza vede in atto? "Distribuire soldi dall’elicottero per i molteplici bonus può anche avere anche un senso, ma solo nell’immediato. Ipotizzare una nuova Iri, poi, è del tutto fuorviante: si fa presto a passare dall’intervento pubblico all’occupazione militare delle imprese. E lo dice uno che l’Iri, quella vera, l’ha vissuta e frequentata".

Quale politica, allora, servirebbe per disinnescare i rischi che individua? "Non si governa un Paese senza tenere conto di due criteri fondamentali. Si tratta di avere uno sguardo orizzontale: non si può pensare che stia succedendo la stessa cosa dappertutto. Si tratta di accompagnare il Paese, non di chiamarlo alle armi".