Coronavirus, lo studio: "Molti asintomatici grazie a vecchi anticorpi"

Speranze da una ricerca americana: contatti con altri Coronavirus potrebbero proteggere dal Covid

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Perché non tutti coloro che risultano esposti al Sars-CoV-2 sviluppano la malattia? Che cosa li protegge dall’infezione acuta? Una ricerca condotta a San Diego in California su vecchi campioni di sangue di donatori hanno evidenziato che nel 40-60% di quelle provette erano presenti cellule T che riconoscevano il virus, nonostante la sua circolazione non fosse ancora avvenuta. Sulle potenzialità della memoria d’immunità cellulare si sta concentrando anche uno studio italiano condotto dall’Istituto Humanitas di Milano, il Covid Care Program, che ha testato, nei mesi della pandemia, quattromila dipendenti dei sette ospedali del gruppo per capire quanto si fosse espanso oltre il numero effettivo di malati. E ora si appresta a verificare, in chi ha mostrato la presenza di anticorpi tali da preservarlo, quanto durerà questa salvaguardia e, in caso di una seconda ondata, quale sarà il livello neutralizzante, quello cioé in grado di rendere innocuo ogni attacco del contagio.

Maria Rescigno, principal investigator del Laboratorio di immunologia delle mucose e microbiota Humanitas e docente dell’Humanitas University, sta coordinando l’indagine che ha finora stabilito che in media il 15% del campione è risultato positivo agli IgG, cioé agli anticorpi che testimoniano il contatto con il virus (ma con punte del 43% a Bergamo) e tra costoro il 10% è stato totalmente asintomatico mentre il 20% ha manifestato uno o due sintomi non immediatamente riferibili al Covid (raffreddore o mal di gola).

Impossibile, sostiene la Rescigno, dire se questa risposta immunitaria sia stata innescata da precedenti contatti con altri tipi di Coronavirus: "I Betacoronavirus, per esempio, sono molto frequenti, ma al momento non possiamo dire che chi l’ha avuto sia più resistente all’attuale epidemia. Stiamo però portando avanti la nostra indagine fino al maggio 2021 proprio per seguire i soggetti entrati nel test e stabilire per quanto si protrae nel tempo la risposta immunitaria e, in prospettiva, conservando i loro sieri, vedere se sono presenti anticorpi anche per altri virus e, soprattutto se, con l’arrivo di una seconda ondata la percentuale di chi si ammala sarà più bassa. Il che indurrebbe a pensare che chi ha sviluppato anticorpi abbia anche il potere di proteggere chi ha intorno".

Ma la memoria immunologica (che però non deve far venire meno l’attenzione sulle norme più elementari di protezione individuale e collettiva) potrebbe anche essere un’arma a doppio taglio: "Nella precedente epidemia di Sars 1 - spiega la Rescigno - i soggetti con anticorpi non neutralizzanti andavano incontro addirittura a un’esposizione superiore agli altri, quindi di fatto avere questo scudo, si è tradotto in uno svantaggio clinico".

Capitolo bambini. "Le loro cellule della memoria (memory T cells) dipendono dalla ghiandola del timo che produce sempre meno linfociti a mano a mano che progredisce l’età. Quindi nei più piccoli l’attività è al massimo e, legandosi ai linfociti B che producono la risposta immunitaria, i T li rendono meno esposti al rischio. Soprattutto se le vaccinazioni cui vengono sottoposti hanno reso attivissimo il loro sistema immunitario. Ma il fatto che i giovani restino in gran parte asintomatici non deve far loro dimenticare che comunque il virus produce opacità polmonare e quindi effetti collaterali anche se non una malattia acuta". Perché il corpo ricorda tutto, ciò che lo potrà proteggere in futuro come pure ogni minima ferita, anche se all’apparenza trascurabile.

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