Giovedì 25 Aprile 2024

Conte e la strategia del nì Alla Camera c’è la fiducia "Ma poi non garantisco"

L’ex premier piccona (per ora solo a parole) il governo. Movimento spaccato. Scontro rinviato al Senato, dove i grillini potrebbero uscire dall’aula senza votare

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di Ettore Maria Colombo

Il Dl Aiuti passa alla Camera con tanto di fiducia, ma di aiuti del M5s alla stabilità del governo ne arrivano assai pochi. Il film della giornata, però, va riavvolto per trovarne il senso. Si parte dalla notte precedente, con una infuocata assemblea congiunta dei gruppi parlamentari 5S: la maggioranza degli interventi è per uscire dal governo. I più scalmanati sono i senatori. Il clima è teso, gli interventi durissimi. Tra i pasdaran si fanno notare due vicepresidenti (Taverna e Ricciardi, mente politica del M5s di Conte), i senatori Airola, Castaldi, Endrizzi, Coltorti, i deputati Gallo, Raffa, Sportiello. Tutti interventi ad alzo zero in cui l’opzione appoggio esterno neppure viene considerata.

Tra gli attendisti ci sono due ex big (Bonafede e Fraccaro), in versione sommergibilisti (e rimasti in buoni rapporti con Di Maio). Tra i pochi governisti c’è D’Incà, ex diccì mediatore per eccellenza, e non solo perché ministro ai Rapporti col Parlamento; altri tre vicepresidenti (Turco, Todde, Gubitosa), che però sono pasdaran di Conte. I capigruppo sono divisi: Castellone è per il leave, Crippa per il remain. L’ex viceministro Buffagni prova a calmare gli animi: "Non si decide in base ai sondaggi e non si gioca sulla pelle della gente. Abbiamo posto dei temi, attendiamo risposte concrete". Il travaglio dei 5S è sincero. Conte si gode, sorridendo, gli interventi dei più scalmanati: eccita, invece di calmare, gli animi. Poi tutti a cena insieme.

La mattina passa in surplace, ma alle due si vota la fiducia. Passa con 410 sì, 49 no e un astenuto. I deputati M5s che marcano visita sono 28, di cui 15 assenti ingiustificati, cioè non in missione, ma ne mancano parecchi anche negli altri gruppi. Poi si passa agli ordini del giorno. Il termovalizzatore viene bocciato, il superbonus passa. Quisquiglie. Il vero banco di prova arriverà settimana prossima. Lunedì c’è il voto finale sul dl Aiuti: i 5Stelle si asterranno. Un primo, brutto, segnale. Poi il decreto va al Senato e bisogna correre: scade il 16 luglio. Ma lì non si può ‘splittare’ il voto: l’astensione vale come voto contrario, al massimo puoi uscire dall’aula, per non votarlo, abbassando il numero legale. Conte fa il pesce in barile: "Al Senato vedremo. Noi vogliamo collaborare con il governo". Verbo da leguleio che dice tutto e niente: ‘collaborare’ può anche voler dire che non se ne fa parte. Dal Pd, dove ormai hanno perso la pazienza, scandiscono: "Non votare la fiducia in un ramo del Parlamento è un atto politico da irresponsabili". Poi c’è Rocco Casalino che ‘spinna’ tutto il giorno parole di fuoco: "Presto rompiamo". I deputati più vicini al leader come Vittoria Baldino dicono che "è inutile restare dentro". La verità è che i 5Stelle sono "arciconvinti" che "tanto Draghi resta in sella e noi ci rigeneriamo all’opposizione". Ma vuol dire rompere col Pd? Pronta la replica: M5s e LeU possono far nascere un partito ‘giallo-rosso’, senza il Pd, in nome della "transizione ecologica e sociale" a guida Conte.

Poi c’è una frase finto banale del saggio ministro Giancarlo Giorgetti ("Se M5s rompe? Si vedrà in Parlamento se ci sono i numeri per andare avanti"). Viene tradotta così, nel Transatlantico: "Draghi si dimette, sale da Mattarella, che lo rimanda alle Camere per verificare se gode ancora della loro fiducia. Le Camere danno la fiducia con numeri alti, perché a IpF di Di Maio ne arriveranno altri e Draghi può andare avanti". Il professor Ceccanti scova il precedente: governo Letta 2013, il Pdl ritira l’appoggio per la decadenza di Berlusconi ma grazie all’Ncd di Alfano i ministri restano e va avanti così.