di Elena G. Polidori Accuse nette, parole ruvide. Nel Movimento, alla fine, ne resterà solo uno, come si dice in questi casi. Mai come ieri – dopo un risultato delle amministrative tutto da dimenticare – tra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio è sembrato veramente essere il giorno della resa dei conti. O almeno l’inizio di un duello sulla leadership che non promette nulla di buono sul fronte della coesione del M5s stesso, destinato forse a spaccarsi definitivamente in due soggetti ben prima delle prossime politiche. L’attacco, ieri, è partito da Luigi Di Maio, rimasto silente nell’immediatezza dei risultati del voto amministrativo e di quello del tribunale di Napoli, che ha rigettato il ricorso contro Conte e il suo statuto. A bocce ferme il ministro degli Esteri è andato dritto al bersaglio: "Non possiamo stare nel governo e poi, un giorno sì e l’altro no, attaccare il governo – ha detto –. Il M5S deve fare un grande sforzo nella direzione della democrazia interna". E rivolgendosi, poi, direttamente a Conte, non ha lasciato spazio ad interpretazioni: "Non si può dare sempre la colpa agli altri, risalendo addirittura all’elezione del presidente della Repubblica, per dire che siamo andati così male; bisogna prendersi le responsabilità". "Credo – ha aggiunto Di Maio –, che il M5S debba fare un grande sforzo nella direzione della democrazia interna: nel nuovo corso servirebbe più inclusività, anche a soggetti esterni". E ancora: "lo dico a voi perché non esiste un altro posto dove poterlo dire". La replica di Conte è arrivata immediata: "Quando Di Maio era leader, come organismo del M5s c’era solo il capo politico. Che oggi ci faccia lezioni di democrazia fa sorridere". Stoccata finale: "È nervoso perché abbiamo messo in votazione il secondo mandato. Se vuole fare un partito suo ce lo dirà lui nelle prossime ...
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