Conte-De Gaulle e la sindrome dell’arrocco. Quando il politico si crede onnipotente

Il premier mette al centro di ogni combinazione la sua permanenza a palazzo Chigi. Il ruolo debordante di Casalino, consigliere-Rasputin

Giuseppe Conte, 56 anni, con Rocco Casalino, 48 anni (Imagoeconomica)

Giuseppe Conte, 56 anni, con Rocco Casalino, 48 anni (Imagoeconomica)

Après moi le déluge. Come Luigi XV di Francia, detto il Beneamato, Giuseppe Conte pare guardare alla crisi di governo con un misto di stupore e preoccupazione. Lo stupore di chi sinceramente non comprende tanta ingrata avversione nei confronti dell’uomo che ha salvato dall’Italia dal baratro - cioè lui medesimo - e preoccupazione per come il Paese potrebbe uscire dalle secche economiche e pandemiche senza uno statista di quella portata dietro alla scrivania di palazzo Chigi. Sempre lui.

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Lui, l’avvocato dei potenti che per spirito di servizio è diventato avvocato del popolo e che per questo ha rinunciato solo nell’ultimo anno a oltre un milione di guadagno, nelle complicate alchimie di queste trattative finisce sempre per porre alla base di ogni ragionamento la sua poltrona a palazzo Chigi. "Conte non vuole salire al Colle dopo il ritiro delle ministre renziane", "Conte chiede rassicurazioni dal presidente della repubblica", "Conte presenta le dimissioni solo se i partiti gli assicurano un reincarico" sono i titoli di questi giorni.

Non c’è politica che non combaci con l’orizzonte dell’arrocco e la permanenza nell’incarico. Frutto più che di una strategia, di quello che i suoi detrattori dipingono come un troppo flebile senso dello Stato che fa sembrare le istituzioni altro da sé. Sentimento di cui Conte aveva già mostrato di non provare eccessiva dimestichezza, almeno stando alle accuse di Matteo Renzi, inventandosi una fondazione sulla cybersicurezza di cui lui e lui solo avrebbe avuto il controllo oppure immaginandosi una task force per la gestione dei fondi europei che avrebbe fatto capo a lui e non ai ministeri competenti, e che adesso lo portano a forzare la situazione scegliendo, raccontano le cronache, la strada di un pericoloso show down nell’aula del Senato. Conte inizia fare il suo gioco, indipendente da Pd e M5S, mettendo così a repentaglio non tanto sé stesso quanto il destino della legislatura per questo destando non poco scontento nei suoi sodali, e alcuni dicono anche al Quirinale.

In Giuseppe Conte pare in sostanza essere scattata una reminiscenza di grandeur napoleonica tipica degli statisti a scoppio ritardato, quelli che arrivano nelle stanze che contano nella seconda parte della propria vita pubblica. I politici di professione, loro, così vituperati, sanno che il potere va e viene, salgono sulla giostra coscienti che prima o dopo finirà, spesso più prima che dopo, e quando ne escono sperano che un’altra chance sarà loro offerta. Loro, i neofiti no, avvertono invece la provvisorietà del comando più come promessa di immeritata caducità che come possibilità di riscatto, ne sperimentano la forza inebriante e per questo ne temono l’inevitabile finitezza che da un giorno all’altro li potrebbe far ripiombare in quell’anonimato dal quale sono emersi, senza neppure chiedersi perché e con quali meriti erano sbucati dal nulla. Quindi si barricano e mettono i sacchetti di sabbia dietro alle finestre. La politica non è stata per loro conquista ma biglietto della lotteria, ineffabile second life, e come in tutte le lotterie i miracoli non si ripetono. Poi c’è l’improvvisa e inattesa notorietà che stordisce, gioca brutti scherzi, e ti fa sentire De Gaulle o De Gasperi solo perché hai letto un sondaggio che ti descrive l’uomo più popolare, e non ti ricordi di quanti prima di te hanno vissuto la fugace parabola del Papeete.

Ma niente, la vanità dell’uomo è spesso superiore alla sua intelligenza, e in questo Conte non fa eccezione, specie se le persone che hai accanto non fanno che accarezzare la tua autostima e accrescerti la sindrome del fortino. Pare in questo che il portavoce del premier non sia certo un aiuto, tant’è che molti avrebbero consigliato Conte di trovarsi un altro collaboratore, e che quel Rocco Casalino entrato di soppiatto nelle stanze della politica dei grandi sia pian piano assunto a ruoli secondo alcuni più importanti di lui. Lo dipingono come un mezzo Rasputin, non solo portavoce ma esondante spalla politica, uno che ormai si atteggia a Gianni Letta, chiama i partiti, conduce trattative, fa e disfa. Come Conte, lui si crede migliore di quelli che l’hanno preceduto, e come il suo capo pensa che sarà difficile fare a meno di lui. I Beneamati sono diventati due.