Mercoledì 24 Aprile 2024

Cina contro tutti: non ci bullizzerete Xi imita Mao e fa muro su Wuhan

A Pechino parata per i 100 anni del Partito comunista. Il leader non vuole nuove inchieste sull’origine del Covid

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di Cesare De Carlo

I totalitarismi e i regimi autoritari hanno questo in comune: la consapevolezza genetica che i simboli sono i più efficaci per il lavaggio del cervello. Stessa cosa per la retorica, come quella usata ieri da Xi Jinping, presidente (a vita) della Cina comunista. Sono finiti i tempi – ha detto – in cui il popolo cinese veniva maltrattato, oppresso, schiavizzato, chi volesse riprovarci finirà con la testa fracassata contro la Grande Muraglia d’acciaio eretta con la carne e il sangue di 1,4 miliardi di cinesi.

Orgoglio, arroganza nella consapevolezza di essere già una superpotenza e di poter diventare quella egemone. Ma la cosa che ha impressionato di più i sinologi non è il linguaggio. È il suo destinatario: esterno e non interno.

All’interno, in Cina, i cervelli sono già lavati da tempo e comunque gli anti-sistema sono in prigione o in manicomio o spariti senza traccia. Dunque quel monito era rivolto all’America, all’Europa, al Giappone in primo luogo. Nessuna illusione di imporre alla Cina commissioni inquisitorie (sull’origine del virus) e tanto meno rappresaglie. A Washington in Congresso sta per essere presentata una legge. Prevede risarcimenti trilionari, nel caso in cui si stabilissero colpe specifiche. I dubbi che il Covid sia scaturito dal laboratorio di Wuhan sono sempre di meno.

Ma le prove? Manca per ora la pistola fumante. Ostacolate in ogni maniera le inchieste internazionali. E del resto sperare che Xi autorizzi "interferenze" è improbabile, anzi impossibile. Ieri non ha nemmeno accennato alla pandemia dalla quale la Cina si è già ripresa, gli Stati Uniti si stanno riprendendo, ma l’Europa no. Ha menzionato successi presenti e continuità storica. Non a caso, aveva smesso giacca e cravatta per la tuta grigia di Mao Tse-tung e, non a caso, parlava dalle mura della Città Proibita, quella che per millenni ospitò le dinastie imperiali.

Un po’ più sotto, un gran ritratto del Grande Timoniere guardava 70mila selezionatissimi ascoltatori in piazza Tienanmen. Tutti senza mascherina. Pechino non ha più contagi. Piazza Tienanmen è quella in cui i carri armati schiacciarono la protesta degli studenti. Ieri, 32 anni dopo, quelli della Cina "ringiovanita", sgargianti nelle uniformi d’apparato, azzurre, gialle, rosse, scandivano slogan monocordi: "Il partito ha sempre ragione", "Siate grati al partito", "Seguite il partito", "Siamo una nazione forte". Un coro di 3mila voci bianche intonava inni patriottici.

Nessuna sorpresa. Le aspirazioni libertarie svanirono dopo l’intervento normalizzatore di Deng Xiaoping, il teorico del revisionismo comunista. E le nuove generazioni si sono assuefatte al paradosso di un capitalismo di Stato calato nella camicia di forza del monolitismo ideologico. Al libretto rosso hanno sostituito il computer. "Arricchirsi è glorioso", proclamava Deng. Appunto: ci sono 5 milioni di milionari. Ma 700 milioni hanno ancora un reddito pro capite inferiore a mille dollari annui.

In realtà, ieri, Mao si sarà rivoltato nella tomba. La Cina del miracolo è la negazione di tutto quel che predicava. Il suo sviluppo ne è la consacrazione. Basta paragonarlo al sottosviluppo della rivoluzione originaria, che costò la vita – mai dimenticarlo – a 80 milioni di "nemici del popolo", al sottosviluppo della rivoluzione culturale (altri milioni di morti), alla crisi, infine, di un Occidente che Mao non riuscì ad abbattere e che Xi ha prostrato nell’economia e nella salute.

Del resto – anche questa è storia – il mostro che ci divora l’abbiamo creato noi. Siamo stati noi a esportare ricchezza e know how e a importare povertà e disoccupazione. E noi a farlo entrare nella Wto.

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