Caso Moro, Arnaldo Forlani: "Fermezza, ma ci furono errori"

Il rapimento e la strage della scorta 40 anni fa, il 16 marzo '78. Ancora oggi di via Fani e di tutto il caso Moro rimangono irrisolti molti misteri

Caso Moro (Archivio)

Caso Moro (Archivio)

Roma, 26 febbraio 2018 - Quella 'geometrica potenza di fuoco’ tirò le linee dei destini della Prima Repubblica. E, come un timer, dettò il tempo delle progressive deflagrazioni d’un sistema. Alle 9 circa del 16 marzo 78, quarant’anni fa (quasi) esatti, in via Mario Fani, non esplose una bomba. Di più: si sbriciolò la certezza della democrazia. Della terza via rispetto ai blocchi ideologici. Furono massacrati gli uomini della scorta del centro di gravità della politica italiana, Aldo Moro, statista Dc, che venne sequestrato e si dissolse nel buio delle trattative e dei mesi più torbidi dell’Italia moderna, fino al 9 maggio, quando il suo corpo fu ritrovato nella bara metallica della Repubblica, la Renault 4 rossa di via Caetani.

Arnaldo Forlani, da buon ex mezzala nella squadra della sua Pesaro, è sempre stato fluido nel saettare tra i microfoni. Eppure, l’altro giorno, ha accettato il taccuino. Alla vigilia del massacro di via Fani, l’oggi 92enne Forlani, era ministro degli Affari Esteri dell’Andreotti IV, che emise il suo vagito il 13 marzo e la cui fiducia fu votata proprio nel giovedì rosso, il 16 marzo, quando nell’aria c’era ancora odore di fuoco e sangue. La poltrona dello statista pesarese era tra le più calde, perché in mezzo ai due ingombranti braccioli dei blocchi occidentali e sovietici, che occhieggiavano sull’Italia ad ogni piè sospinto. Sospinto, nella fattispecie, verso il Partito Comunista, che avrebbe partecipato alla maggioranza parlamentare in sostegno al nuovo esecutivo. Erano i primi passi d’un compromesso storico e d’una profetica visione che Moro aveva letto come la migliore ricetta possibile per uno Stato incagliato nel pantano dell’ingovernabilità.

Quarant’anni fa, in via Fani, un commando terroristico uccide la scorta di Aldo Moro e sequestra l’uomo chiave della politica italiana. Come lo ricorda?

"Avevo assunto, allora, anche per indicazione di Aldo Moro, la guida del ministero degli Esteri. Degli Affari Esteri, come si chiamava allora. In quella carica potei registrare, dunque, anche su scala internazionale, l’enorme sgomento che aveva fatto seguito alla strage e poi alla prigionia e all’assassinio di Moro".

Come’era percepita, in ambito straniero, la figura del politico Aldo Moro?

"Aveva, in tutto il mondo democratico, un prestigio presso tutti i governi, forse anche maggiore, se possibile, di quello che aveva qui, nel mondo politico italiano voglio dire, dove la polemica indulgeva spesso in modo superficiale sulla complessità dei suoi discorsi e sull’abilità di presunte manovre politiche che gli venivano attribuite".

E lei, che nel governo che gestì il sequestro era uno dei cardini, come aveva giudicato in precedenza Moro nella dialettica interna alla Dc?

"Nel panorama nazionale, parlo della politica naturalmente, per la sua cultura e capacità di mediazione, esprimeva più compiutamente di tutti i valori della nostra Costituzione e la traduceva nei fatti, nel modo più coerente".

Sul sequestro e sulla morte di Moro, aleggia un firmamento di ipotesi. Perché, secondo lei, questa determinazione terrorista nel colpirlo?

"I nemici della democrazia lo avevano a bersaglio".

Ma perché proprio lui?

"Colpendo lui, pensavano proprio di colpire il sistema democratico in modo, forse, decisivo e proprio nel punto di maggiore equilibrio e cioè nella sua capacità di mediazione".

Quei mesi furono scanditi da parole chiave che ancora martellano la coscienza degli italiani. Una su tutte: fermezza. Fu quella che adottò il governo. Fu il cavallo di battaglia della sua Dc.

"Penso che tutte le strade possibili siano state tentate. Certamente anche con errori".

Lei, in un suo successivo governo, spalmato tra l’80 e l’81, e in un periodo in cui ci fu un avvitamento della virulenza brigatista, fece tesoro della linea della fermezza, contribuendo a debellare il fenomeno eversivo. Cosa accadde invece nei giorni di Moro?

"In realtà sono venute meno tutte le condizioni di possibili trattative".

Arnaldo Forlani è tra i pochi rimasti ad aver condiviso una vita politica con Moro. Com’era nel suo carattere e nella sua umanità?

"Era una persona buona e mite, proprio come disse di lui il papa Montini, quel giorno, al suo funerale a San Giovanni in Laterano".

Il sacrificio dell’uomo politico, del simbolo, essenzialmente dell’uomo. Che cosa resta oggi?

"Della sua capacità di dialogo e comprensione delle posizioni diverse, mi pare che si sia perduta traccia...".

Estremismi che rispuntano dai solai della storia, ‘nuovismo’ e irruenza verbale nel dibattito elettorale. Quale l’eredità di Moro nel panorama politico attuale?

"La vicenda è, in questo confronto elettorale, una ragione di più per riflettere sulla lezione di Aldo Moro".