Bologna, 25 agosto 2019 - Una settimana fa Antonio e Pupi Avati sono andati al suo capezzale. Carlo Delle Piane giaceva già in quello stato di torpore a cui da molto tempo l’avevano condannato le varie e gravi patologie ossee, neuro e cardiovascolari che l’affliggevano. "Gli parlavamo ma lui non reagiva – ricorda oggi il regista (in Romagna per la promozione dell’ultimo Il Signor Diavolo) che fu il suo pigmalione, dandogli negli anni della loro collaborazione quella fama e quel tributo di premi, dalla Coppa Volpi, al Nastro d’Argento, al Globo d’Oro, che ne sancirono l’assoluta qualità d’attore –. A un certo punto mio fratello si è chinato verso di lui e gli ha detto: “Sai che Pupi sta scrivendo un ruolo meraviglioso per te?” e il viso si è illuminato di un sorriso che è anche l’ultimo ricordo che di lui mi porto nel cuore. A conferma che per un attore di razza la prospettiva di poter recitare è la miglior terapia per tutti i mali".
Non così per Delle Piane, da anni fiaccato nel fisico e mortificato anche psicologicamente: "Soffriva tremendamente che il cinema lo snobbasse e pativa lo stesso senso d’inferiorità che travagliava Lucio Dalla. A entrambi l’aspetto fisico provocava un senso d’inadeguatezza che li obbligava inconsciamente a dare e fare il doppio, il triplo, di chiunque altro per credere di essere all’altezza dei “normali”. E in effetti a Carlo affidavano sempre parti dove il naso storto o gli occhi sbarrati erano gli elementi decisivi per la scelta".
Lei stesso all’inizio aveva più di una perplessità a scritturarlo... "Me lo impose Antonio con uno stratagemma. Nel 1977 stavamo preparando Tutti defunti... Tranne i morti con Gianni Cavina. Lui insisteva ma io non volevo neanche conoscerlo. Ero prevenuto perchè Carlo veniva da un cinema di serie zeta. La sua carriera era via via scaduta e faceva filmetti di pessima qualità".
Come si ricredette? "Antonio me lo fece trovare di nascosto in una sala costumi, tutto perfettamente vestito e truccato da Humphrey Bogart. Doveva in effetti fare un detective. La cosa mi fece talmente ridere che mi caddero all’istante i pregiudizi su di lui e poi durante il film mi conquistò definitivamente: mi resi conto fino in fondo delle sue potenzialità e delle sue qualità".
La strada da quel momento fu in discesa? "Tutt’altro. Nonostante il successo, quando lo proposi per Una gita scolastica i distributori e il produttore mi opposero un secco no. Ma per me il protagonista, il professor Carlo Balla, doveva essere lui e nessun altro. E la storia mi dette ragione. Si portò via il Premio Pasinetti nell’83, nell’84 il Nastro d’Argento e il Globo d’Oro come attore rivelazione. È stato anche il film che meglio l’ha rappresentato: senso di inadeguatezza e timidezza gli appartenevano profondamente".
Bastò a garantirgli un posto nell’empireo della settima arte? No, solo io e Olmi, con Ticktes nel 2004, gli abbiamo dato la possibilità di esprimersi ai massimi livelli. Lui ne soffriva tantissimo, ma non riuscì mai a cancellare un passato di cinema di basso profilo. Una volta chiesi a Fellini di farlo lavorare, lui ci teneva molto, ma mi sentii rispondere: “Non posso, è troppo tuo”. Alla fine l’averlo voluto tanto con me forse è diventato anche un limite per lui. Successe anche al povero Nik Novecento, anche se la sua morte precoce non consente di fare paragoni o previsioni".
Ha qualche rimorso o rimpianto nei suoi confronti? "Mi sono illuso che altri si accorgessero delle sue caratteristiche attoriali, ma non sono riuscito a sottrarlo a un isolamento che lo faceva patire, e che la sua ipocondria accentuava. Il nostro sodalizio si è rotto perché lui alla fine pretendeva solo ruoli da protagonista che io non avevo da dargli. Ciò non inficiò mai la grande stima nelle sue capacità. Era un mago dell’underacting: in Regalo di Nataleil suo avvocato Santelia riusciva a rimanere impassibile senza muovere un solo muscolo della faccia. Un attore portatore di verità".