Maurizio Landini l’ha definita "pandemia salariale". Luigi Sbarra ha sollecitato ripetutamente il rinnovo dei contratti collettivi. Lo stesso presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, ha dato battaglia per il taglio choc del cuneo fiscale da 5 punti e 16 miliardi di euro. Ma questo per fronteggiare l’emergenza caro-energia e l’inflazione sopra le due cifre. Il punto è che anche prima del biennio nero dell’impennata dei prezzi, le retribuzioni dei lavoratori italiani stavano messe malissimo.
Dal 2007 al 2020, anno della pandemia, gli stipendi dei lavoratori italiani – scrivono senza orpelli i ricercatori dell’Istat – sono calati del 10 per cento in termini netti. E se si allarga l’orizzonte agli ultimi trenta anni – fanno sapere gli esperti dell’Inapp – ci troviamo di fronte a una situazione altrettanto drammatica: l’Italia è l’unico Paese dell’area Ocse nel quale, dal 1990 al 2020, il salario medio annuale è diminuito (-2,9%), mentre in Germania è cresciuto del 33,7% e in Francia del 31,1%. I numeri, dunque, non lasciano margini di interpretazione su quello che è accaduto ai salari italiani. La ricerca dell’Istat Reddito e condizioni di vita, relativa agli anni 2019-2020, ma con confronti fino al 2007, mette a fuoco una serie di realtà definite anche per la fase pre-inflazione. Nel 2020 i redditi netti da lavoro dipendente sono in calo del 5% sul 2019, il valore medio del costo del lavoro, al lordo delle imposte e dei contributi sociali, è pari a 31.797 euro, il 4,3% in meno dell’anno precedente. La retribuzione netta a disposizione del lavoratore è pari a 17.335 euro e costituisce poco più della metà del totale del costo del lavoro (54,5%). L’impatto della pandemia si sente, ma il rapporto lordo-netto è come negli anni precedenti e indica il peso di fisco e contributi sulle buste paga. Il cuneo fiscale e contributivo, ossia la differenza tra il costo sostenuto dal datore di lavoro e la retribuzione netta del lavoratore, è in media pari a 14.600 euro e supera il 45% del costo del lavoro (45,5%). Ma il reddito netto di un lavoratore autonomo raggiunge il 68,5% del totale (17.046 euro): le imposte rappresentano il 14,1% del reddito lordo e i contributi sociali il 17,4%. Se allunghiamo lo sguardo al decennio o poco più, si scopre che tra il 2007 e il 2020 la retribuzione netta a disposizione dei lavoratori si è ridotta del 10%. Il risultato è che nel 2020 circa il 76% dei redditi lordi individuali non supera i 30.000 euro annui: la metà dei redditi lordi individuali si colloca tra 10.001 e 30.000 euro annui, oltre un quarto è sotto i 10.001 euro e soltanto il 3,7% supera i 70.000 euro.
L’inflazione a due cifre di quest’anno ha ampliato la perdita del potere d’acquisto, fino a sfiorare il 20 per cento in termini reali. Senza che le provvidenze e le misure dei numerosi Decreti Aiuti abbiano compensato più di tanto il crollo. Né a questo fine sarà sufficiente il taglio del cuneo del 3 per cento in manovra. Ma la partita salariale in Italia, accentuata nelle sue dimensioni negli ultimi venti anni, viene da lontano e non dipende solo dall’inflazione o dalle crisi finanziarie dal 2008 in avanti. In tre decenni – come rilevano dall’Inapp – è aumentato il divario tra la crescita media dei salari nei Paesi Ocse e la crescita dei salari in Italia, progressivamente dal -14,6% (1990-2000), al -15,1% (2000-2010) e, infine, al -19,6% (2010-2020). Perché? In pratica i salari italiani sono intrappolati tra scarsa produttività e esigenze di riduzione dei costi da parte delle imprese. Hanno influito molteplici fattori a partire dalla competizione con i Paesi esportatori di prodotti a basso valore aggiunto, al ricorso alla manodopera a basso costo e bassa qualificazione che ha schiacciato verso il basso contemporaneamente i salari e il livello di produttività nel nostro sistema produttivo.
Claudia Marin