Martedì 23 Aprile 2024

Biden avverte Cina e Russia: non sono Trump

Linea dura del presidente Usa contro i regimi "autoritari". Attacca Putin su Navalny e Xi sui diritti. Poi alza il tiro: "Ora reagiremo"

Migration

Colomba? Dipende. Nel suo primo discorso di politica estera Joe Biden ha sorpreso amici e alleati con toni che più che a Obama, di cui è stato vicepresidente, lo riallacciano a Ronald Reagan, cioè a colui che già all’inizio della presidenza nel 1981 proclamò la crociata contro l’impero del male. Dieci anni dopo, come si sa, l’Urss avrebbe cessato di esistere. Ieri il neo presidente ha dato l’impressione di avere fissato i parametri della sua crociata: contro la nuova superpotenza, comunista come la prima, ma più minacciosa della prima. "Dobbiamo fronteggiare – ha proclamato – le crescenti ambizioni di Pechino". E ancora: "Affronteremo gli abusi economici della Cina. Contrasteremo le sue azioni aggressive e coercitive". Definisce i due paesi "autoritarismi".

Nemmeno Donald Trump nei suoi quattro anni si era espresso così. Altra differenza non casuale: gli accenni idealistici. Sempre parlando della Cina ne ha condannato la violazione dei diritti umani. "Ne respingeremo l’attacco", ha detto. Non c’è solo Reagan nelle sue parole. Ci sono anche Wilson e il suo idealismo, cioè la difesa di quei valori che per essere americani non vanno considerati meno universali e dunque meritevoli di protezione da parte della nazione che presume di rappresentarli al meglio o almeno da più lungo tempo. Non a caso dalla Cina la sua condanna si è estesa alla Russia. Alexey Navalny va liberato.

In realtà Biden sa bene che Navalny non è Solgenitsin e che la Russia non è più l’Unione Sovietica. La Russia postcomunista è una semidemocrazia e al confronto con la Cina è un modello di tolleranza. Tuttavia l’appello al rispetto dei diritti umani rivolto a Putin serve a tracciare un parallelo con il monito ben più fermo alla Cina per il suo espansionismo aggressivo. Da giorni navi da guerra cinesi incrociano nel braccio di mare fra il continente e l’isola di Taiwan. Il regime comunista per la prima volta evoca la possibilità di una guerra. Non ha mai cessato di rivendicare l’appartenenza di Taiwan alla Cina continentale. Ma Taiwan è alleata degli Stati Uniti dal 1949, da quando Chanj Kai Schek vi si rifugiò dopo la sconfitta contro Mao Tsetung. Taiwan dunque rappresenta il primo test della credibilità internazionale del nuovo presidente americano.

Ebbene ieri questa credibilità almeno nei termini ne è uscita rafforzata. Ancora non è chiaro se questo "messaggio al mondo", come Biden – che ha anche avvertito RIad di "fermare la guerra in Yemen" – lo ha chiamato, sia farina del suo sacco. O se invece dietro ci sia un pragmatico come è il nuovo segretario di Stato. Ma il fatto che a esporlo sia stato il presidente dà un risalto particolare. Ovviamente la porta della diplomazia rimane aperta. "Siamo pronti a lavorare con Pechino". Quando? "Quando sarà nell’interesse dell’America". Ora gli occhi degli americani, di qualsiasi americano, sono puntati sulla missione degli ispettori dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. I quali stanno cercando di capire come quel virus maledetto da Wuhan si sia propagato al mondo intero. A causa dei pipistrelli? In ogni caso le conseguenze per l’intero Occidente sono state catastrofiche. La Cina ha colpe gravissime. Ne dovrà rendere conto all’umanità intera.