Anziani a casa? Non è un Paese per vecchi

Viviana

Ponchia

Adele ha lasciato la sua casa e il marito a metà gennaio dopo essere rimasta in lista d’attesa in una rsa fuori Torino per mesi. Quando non riconosce un nipote o dimentica a cosa serve il frigo, dice con un sorriso: la testa perde, la guarnizione è rotta. Ha 92 anni, una laurea in Lettere e una collezione di audiolibri. Ma dentro e fuori tutte le protezioni stanno cedendo. Dissolvenze, cadute, smarrimenti. E ogni tanto lampi di dolorosa lucidità: troppi “sagrin” per voi. Il piemontese sagrin rende bene l’idea del cruccio, dell’afflizione. Anche della sofferenza morale. È la forza di gravità raddoppiata su di sé e sugli altri, tutti “sagrinà”.

Monsignor Vincenzo Paglia sostiene che tenere gli anziani a casa non è utopia. Che l’assistenza domiciliare deve prevalere sul concetto di nursing home chiamando a raccolta medici di famiglia, assistenti sociali, il buon cuore del quartiere. Un giorno forse. Il medico di Adele risponde solo nelle ore comandate. La badante ha ammesso di non farcela da sola. E l’infermiera di quartiere arriva in ritardo per cose che un vecchio coniuge arrossisce solo a pensarle. Non bastano due figli acrobati, i figli dei figli, la nuora. Manca lo spazio per il letto ortopedico. Il tempo per stare dietro alla burocrazia. Quando la vecchiaia precipita non è più sufficiente moltiplicare premure dilettanti. E allora bisogna per forza mangiarsi le lacrime, arrendersi al sagrin e al senso di colpa e scegliere. Adele vorrebbe farsi piccola per non dare fastidio ma ogni cosa ruota attorno ai suoi pannoloni, alle purghe, al vizio di prendere la porta e andare.

È partita con una piccola valigia dopo avere fatto il tampone dicendosi una bugia: torno presto. Monsignor Paglia è il primo a sapere che dal quel mondo di cure e plexiglass non si torna, lo sappiamo tutti. Sappiamo che a casa il tramonto è dolce immaginato con un camino acceso e il tè al gelsomino. E anche che purtroppo non siamo in un film inglese.