Sabato 20 Aprile 2024

Antonio Tajani Europeista e filo atlantico Scelto nonostante il Cav

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di Antonella Coppari

ROMA

Per una volta, fa fede la biografia. E se qualcuno dovesse ritenere che l’obbedienza al padre-padrone possa prevalere sulle propensioni naturali, meglio che certi dubbi se li faccia passare e chiuda gli occhi. Insomma, in Europa come in via della Scrofa, Antonio Tajani va benissimo. Ha le carte in regola per guidare la Farnesina (e per fare il vicepremier). Dal 1994 – anno in cui è diventato europarlamentare – ha messo radici nell’Unione europea, arrivando a un’altezza tale che nessun altro connazionale ha mai raggiunto. Vicepresidente della Commissione per sei anni con la delega ai Trasporti prima e poi all’Industria, quindi vicepresidente per tre anni e presidente per due e mezzo dell’Europarlamento, figura di spicco del Partito popolare europeo di cui diventa vicepresidente nel 2002. Non servono analisi del sangue per capire che averlo agli Esteri farebbe dormire sonni tranquilli a Bruxelles. "Serve un’Europa protagonista in politica estera e nella Nato. Gli Stati si impegnino nella costituzione di un esercito europeo per la difesa comune. Solo in questo modo possiamo agire da protagonisti nella difesa dei valori e degli interessi europei", cinguettava un anno fa su Twitter, quando la guerra in Ucraina non era ancora scoppiata. Quanto all’atlantismo, nessuna macchia: anche prima dell’invasione russa non ci sono mai stati, su di lui, dubbi di sorta. "Sulla caratura internazionale di Antonio non c’è neppure da discutere", conferma Luca Ciriani, meloniano di ferro. Al netto del tifo politico che ha scatenato tra le opposizioni il tiro al piccione contro di lui nei giorni scorsi, anche dall’altra parte della barricata, quella di sinistra, la pensano allo stesso modo: "Ha caratteristiche e rete di relazioni per potere guidare la Farnesina: è una delle figure più autorevoli sul versante destro".

Insomma, nessuno autorizza a pensare alcunché di negativo se non l’appartenenza a Forza Italia: eccola qui, l’ombra di quelle belle scure. Romano, classe 1953, per anni cronista a Il Giornale, fu scelto dal Cavaliere nel quotidiano di famiglia come portavoce nel 1994, all’inizio della sua carriera politica. Dunque, è ad ogni effetto uno dei fedelissimi della prima ora.

Se è vero che sulle opinioni e sulle propensioni di Tajani non esistono perplessità legittime, è anche vero che è molto difficile immaginare una sua ribellione al capo. Vuoi perché da ragazzino era monarchico, dunque un certo senso della sovranità ce l’ha fin dalla nascita, vuoi per carattere, riesce complicato tagliargli addosso il ruolo che fu di Alfano, Toti o Carfagna. Un problema di cui sono ben consapevoli tanto la Meloni quanto Weber e la Metsola. Epperò, dopo il caso scatenato dalle dichiarazioni pro-Putin del Cavaliere, hanno ritenuto opportuno che fosse comunque meglio averlo dentro il governo. Nella squadra di Palazzo Chigi è un freno alle intemperanze del sire di Arcore.