Anni di piombo, intellettuali e figli di papà. I rivoluzionari da salotto

Artisti, attori, professori, giornalisti: quelli che vezzeggiavano le piazze violente. E che in molti casi hanno accolto e accudito i protagonisti dell’eversione rossa

La prima pagina di Lotta Continua uscita il 18 maggio del 1972

La prima pagina di Lotta Continua uscita il 18 maggio del 1972

Carlo Saronio. Il nome, sfocato e lontano, esce dai terribili e insanguinati anni Settanta e si impone prepotente a chiunque voglia fare i conti con la maledetta stagione (riemersa ieri dai tombini della storia con gli arresti di Parigi) del terrorismo rosso in Italia. La sua drammatica vicenda terrena, come in un romanzo (ma è tutto vero, purtroppo), la racconta (in 'Quello che non ti dicono', il titolo del libro) un altro protagonista a suo modo di quel tempo buio per la Repubblica: Mario Calabresi, il figlio del commissario.

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Ma chi è Carlo Saronio? E perché la sua tragica vicenda umana e politica è così decisiva ancora oggi per chi voglia scendere nei sotterranei oscuri e nelle cantine nascoste della borghesia guerrigliera e compromessa di quegli anni? Saronio è il rampollo di talento di una famiglia di industriali chimici milanesi che, nella classifica dei contribuenti, viene subito dopo i Rizzoli, i Crespi, i Pirelli, i Borletti, i Mondadori, ma che sente un grande senso di colpa per la sua ricchezza al punto da farsi affascinare dalle idee rivoluzionarie e palingenetiche dell’estremismo rosso (ma anche di certo cattolicesimo di base) fino al punto di proteggere in casa un amico ricercato dalla polizia: quel Carlo Fioroni, detto il Professorino (vicino a Giangiacomo Feltrinelli), colui che sarà il regista del rapimento e dell’assassinio dello stesso Saronio.

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Saronio è, dunque, la vittima di quell’incrocio maledetto tra miti rivoluzionali, ribellismo violento, complicità alto-borghesi, e, alla fine, lotta armata. Quel brodo di coltura alimentato anche da cattivi maestri, intellettuali e giornalisti, registi, attori, scrittori, tutti militanti di lotta e di salotto per il quel Sol dell’avvenire che i partiti tradizionali della sinistra, a loro dire, non perseguivano più. E’ la Milano nella quale cresce esponenzialmente il clima di odio contro il commissario Luigi Calabresi, con il manifesto contro di lui con ben 757 firme: da Dario Fo a Alberto Moravia, da Federico Fellini a Eugenio Scalfari, da Camilla Cederna a Umberto Eco, a Giò Pomodoro, a larghissima parte dell’intellighenzia politico-sindacale della sinistra.

In quel contesto, i giornali non sono immuni. Anzi. La rassegna stampa di quegli anni – ha scritto Michele Brambilla nella prefazione all’ultima edizione de L’eskimo in redazione – Quando le Br erano sedicenti – «ricostruiva un clima di faziosità, di violenza verbale, di omissioni e distorsioni che aveva contagiato praticamente tutti i grandi giornali dell’epoca – compresi quelli “borghesi” -  e che aveva un unico fine: dimostrare che la violenza era solo “fascista” o “di Stato” e che il terrorismo di sinistra non esisteva, le Brigate rosse erano un’invenzione del potere reazionario».

Ma il caso dell’appello contro il commissario (del quale si sono pentiti in tanti successivamente) è, in realtà, solo la punta di un iceberg di una omertà sociale e culturale che ha funzionato per decenni anche come rete di solidarietà e di complicità attiva o passiva nei confronti del terrorismo e dei terroristi. "Dietro il terrorismo rosso ci fu un ambiente – ha scritto qualche mese fa sul Corriere Ernesto Galli della Loggia, che pure ieri ha chiesto ai parenti delle vittime di dimenticare il sangue versato -  Ci furono infatuazioni intellettuali diffuse, collusioni personali in buon numero, e un frequente voltarsi di molte «persone normali» da un’altra parte per poter dire di non aver visto né sentito". E così, insiste, «fu questo clima che preparò la successiva omertà nei confronti del terrorismo che ci sarebbe stata per tutti gli anni a venire. Un’omertà che ha visto protagonisti specialmente ambienti significativi di borghesia democratica laica e cattolica di alcune città simbolo del nostro Paese — Milano, Roma, Firenze, Torino — , la quale, direttamente o per il tramite dei propri figli, si trovò in varia misura a costeggiare fatti o protagonisti dell’eversione rossa".

Insomma, "non si è fatta chiarezza perché molti terroristi erano figli di una borghesia che ha protetto se stessa e il suo futuro", ha messo a fuoco Olga D’Antona - vedova di Massimo, assassinato dalle Brigate Rosse il 20 maggio 1999 – ne 'I silenzi degli innocenti' di Giovanni Fasanella. Ed è stato proprio Fasanella, di recente, a insistere sull’esigenza di ricostruire gli alberi genealogici troppo folti del terrorismo: "Franceschini ha raccontato che gli aspiranti brigatisti in fuga dalle sezioni comuniste di Reggio Emilia si radunavano nell’abitazione privata di Corrado Corghi, il democristiano “ambasciatore” di Paolo VI presso i movimenti rivoluzionari latinoamericani, per ascoltare le sue affascinanti lezioni sulla lotta armata". Non basta. "A Milano – ha incalzato - non erano certi salotti della borghesia intellettuale ad accogliere, e spesso ad accudire, i rivoluzionari? A Torino, non erano certi intellettuali di estrazione azionista, i riferimenti culturali dell’extra-sinistra che odiava Enrico Berlinguer, il traditore? A Firenze - dove tra l’altro venne gestito politicamente il sequestro Moro, durante i 55 giorni - i quattro brigatisti graziati non erano per caso tutti rampolli dalla borghesia e dell’aristocrazia cittadina?".

Insomma, come ha avvisato Giampiero Mughini, uno che li conosceva bene, "lo so a puntino quel che eravamo e quel che erano loro. Da Lotta Continua venne Prima Linea, un’organizzazione criminale del terrorismo rosso non inferiore alle Br. Lui (riferito a Adriano Sofri, ndr) la racconta costantemente ai 25-30mila adoranti ex militanti di Lotta continua tuttora impegnati nel rammemorare quelli che ritengono essere stati gli anni memorabili della loro vita. A loro sì, a me no: perché c’ero".