di Giovanni Bogani "A volte bisogna guardare la violenza che c’è nel mondo, nella società, non voltare gli occhi dall’altra parte. Ma sto parlando di noi adulti: i bambini hanno bisogno di qualcuno che li aiuti a comprendere, a capire, a mettere in prospettiva". Lo dice Lee Jung-jae, protagonista della serie Squid Game, il fenomeno che ha travolto gli indici di ascolto di tutto il mondo, in cui a giocare sono 456 disperati, travolti dal fallimento della loro vita, dai debiti, senza più nessuna speranza. Controllati da un esercito di uomini senza volto, in una tuta rossa, armati. Spinti a giocare, un gioco in cui chi perde viene eliminato fisicamente. Ucciso, senza pietà. Più di 150 milioni di spettatori nel solo primo mese. Lee Jung-jae, il giocatore 456, è l’ospite d’onore del Korea film fest, la rassegna di cinema coreano più importante d’Europa. Eccolo, in un elegantissimo giacchetto di tela color crema, foulard, mocassini senza calze, ciuffo curatissimo. Parente lontano del disperato con la tuta verde. Lee Jung-jae, la serie ha suscitato molte polemiche, per il fatto che molti bambini hanno imitato quei giochi violenti. Lei che cosa direbbe alle famiglie con figli che corrono il rischio di voler imitare il gioco? "È chiaro che Squid Game è per un pubblico adulto, non per i bambini. Non tanto per la violenza che vi appare, ma per il fatto che gli adulti possono ragionare sul vero messaggio che la serie porta: è giusto il mondo di oggi, con la sua ossessione per il denaro, un mondo che porta a scambiare la propria vita col denaro? La violenza non è gratuita, serve a raccontare il mondo nel quale vivono i disgraziati, i ‘giocatori’ protagonisti della serie. Ma ci vuole un adulto per comprendere questo messaggio". La società sudcoreana sembra disumana, per come viene mostrata nella ...
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