Ambasciatore italiano ucciso Chiesta la pena capitale per i killer Il papà di Luca: non voglio altri morti

Attanasio restò vittima di un agguato assieme al carabiniere Vittorio Iacovacci e al loro autista. Furono arrestati cinque uomini (un sesto è latitante). Il genitore del diplomatico: "Diteci cosa accadde"

Migration

di Gabriele Bassani

La procura di Kinshasa, capitale della Repubblica Democratica del Congo, ha chiesto la pena di morte per le sei persone accusate dell’assassinio dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio, ucciso il 22 febbraio 2021, assieme al carabiniere Vittorio Iacovacci e all’autista Mustapha Milambo. La notizia è rimbalzata ieri a Limbiate (Monza), dove vivono i genitori e la sorella di Luca Attanasio, di cui appena due settimane fa è stata celebrata la commemorazione con l’intitolazione ufficiale della Villa Rasini-Medolago, all’ambasciatore caduto nell’agguato. Salvatore Attanasio, il papà di Luca, risponde con la consueta cortesia alla richiesta di un commento. "Mi hanno informato gli avvocati, ma attendiamo di leggere le carte per capire bene come si è svolto questo processo" la sua primissima reazione a caldo, ricordando l’attesa per l’altro processo, in corso a Roma, con la richiesta di rinvio a giudizio per due funzionari dell’Onu. "Nessuno vuole la morte di nessuno, non abbiamo bisogno di altri morti, ce ne sono già stati tre e sono già troppi" dice Attanasio, confermando la compostezza che lo ha accompagnato in questi due durissimi anni. "Quello che cerchiamo è giustizia, non vendetta. Vogliamo soprattutto capire cosa è davvero successo e per questo motivo attendiamo di leggere tutti i documenti, come abbiamo sempre fatto finora, insieme ai nostri avvocati".

Cinque dei sei imputati nel processo in Congo sono attualmente detenuti nel Paese africano, mentre un sesto è latitante ed è processato in contumacia. Tutti e sei sono accusati di "omicidio, associazione a delinquere, detenzione illegale di armi e munizioni da guerra". Attanasio, Iacovacci ed il loro autista sono stati uccisi a colpi d’arma da fuoco dopo essere caduti in un’imboscata nei pressi del Parco nazionale di Virunga, nella provincia del Nord Kivu. L’accusa ha presentato gli imputati come membri di una "banda criminale", che inizialmente non intendevano uccidere l’ambasciatore, ma rapirlo e chiedere un milione di dollari per il suo rilascio, mentre gli imputati, che furono arrestati nel gennaio del 2022, hanno negato i fatti durante tutto il processo. Sabato sono previste le arringhe della difesa e poi sarà emessa la sentenza. Nel Paese africano c’è una moratoria di fatto sulle condanne capitali: vengono comminate ma non eseguite ormai da 20 anni e commutate in ergastolo.

La tesi del tentativo di rapimento per un riscatto non ha mai convinto la famiglia Attanasio e i legali e chi, anche seguendo le prime fasi del processo in Congo, ha dedicato a questa vicenda un libro d’inchiesta pubblicato un paio di settimane fa, come Antonella Napoli, autrice de "Le verità nascoste del delitto Attanasio", che parla di "una sentenza già scritta". La richiesta di condanne durissime per gli imputati in Congo, non cambia certo le cose per la famiglia Attanasio, il cui pensiero è rivolto piuttosto al processo italiano, che fa seguito alle indagini condotte dai Carabinieri direttamente nella Repubblica Democratica del Congo e con la richiesta di rinvio a giudizio della Procura di Roma per i dirigenti del Pam Rocco Leone e Mansour Rwagaza su cui il giudice per l’udienza preliminare dovrà esprimersi il prossimo 25 maggio. "Auspico che i due funzionari non facciano ricorso all’immunità diplomatica di cui godono e vogliano invece rispondere alle accuse che li riguardano" dice Salvatore Attanasio.

"Abbiamo perso un figlio. Conforto non ce n’è e non ci sarà mai. Si spera solo di arrivare a un briciolo di verità, soprattutto per le nostre nipoti, che purtroppo vivranno una vita senza il papà – aveva ricordato il papà di Luca durante le celebrazioni del 22 febbraio –. Trincerarsi dietro l’immunità sarebbe immorale, ingiusto e anche scandaloso, perché di fatto renderebbe impossibile conoscere la verità su quello che è successo quella mattina, che è l’unica cosa che ci importa veramente oggi".