Alluvione, la montagna devastata dalle frane. Strade a pezzi e paesi isolati: "Anche 5 anni per il ritorno alla normalità”

Gli smottamenti sono saliti a 305, oltre 500 i collegamenti interrotti. Danni per oltre mezzo miliardo di euro. Spizzichino (ingegnere Ispra): "Per stabilizzare il terreno si interviene subito con briglie di contenimento".

I dati forniti ieri dalla regione Emilia Romagna fotografano la vastità della catastrofe: 305 frane, 61 esondazioni, oltre 500 strade chiuse totalmente o parzialmente, e soprattutto 14 morti, 36.600 persone evacuate. "Sui danni – dice il goveratore Stefano Bonaccini – abbiamo stimato sulle strade provinciali oltre mezzo miliardo di euro, e mancano le strade comunali. Con Anas abbiamo stimato altri 100 milioni di danni e 100 con Ferrovie".

Una strada franata a Monzuno (Bologna)
Una strada franata a Monzuno (Bologna)

Un disastro, l’ennesimo, in un paese bellissimo ma fragile, l’Italia, nel quale le montagne e soprattutto le colline, si sgretolano se piove più del normale, il che che fa venire in mente quanto scrisse nel 1904 il meridionalista Giustino Fortunato sulla Calabria: "Sfasciume pendulo sul mare". È il Paese – fotografato dai rapporti Ispra – dei 620mila movimenti franosi, che ha l’8.7% del territorio (+3.8% dal 2018 al 2021) a pericolosità frana elevata o molto elevata, che sale al 14,6% in Emilia Romagna, al 16,2% in Toscana, al 19,5% in Campania e al 77,9% in Val d’Aosta. Un’Italia con 1.3 milioni di abitanti, 565 mila edifici e 84 mila industrie e servizi a rischio frane.

"La pericolosità è così elevata – spiega Daniele Spizzichino, ingegnere geotecnico che fa parte del servizio geologico dell’Ispra e del consiglio scientifico dello stesso istituto – per la conformazione naturale del Paese, che è morfologicamente giovane e tettonicamente attivo: è un’area naturalmente disposta a fenomeni di dissesto idrogeologico. Su questo ha poi inciso l’urbanizzazione, che spesso, specie tra gli anni ’60 e ’90, è stata fatta senza considerare il rischio frane. Si è costruito tanto anche in zone dove non andava fatto. E del resto il vincolo idrogeologico è stato introdotto solo alla fine degli anni ’90. Il combinato disposto di questi fattori produce un rischio diffuso al quale si aggiungono gli effetti del cambiamento climatico che determinanoun chiaro aumento degli eventi meteo ad elevato impatto che costruiscono uno dei meccanismi di innesco delle frane".

Se questa è la realtà, come si può intervenire? Dopo l’emergenza, le cose da fare differiscono se si tratta di frane “rapide“ (che sono il 28%) o frane “lente“. "In ogni caso – sottolinea Spizzichino – per poter ripristinare le infrastrutture, poniamo delle strade o una ferrovia, o tornare ad abitare le case, lo si può fare solo dopo che la frana è stata stabilizzata: prima di allora sono possibili solo interventi provvisori, come la creazione di deviazionivarianti alle strade".

Ma che significa stabilizzare una frana? Per le frane “veloci“ si devono ad esempio creare briglie con collettori devianti per interrompere i flussi, lavorare sui terreni a monte e possibilmente si deve cercare di delocalizzare. Per i movimenti “lenti“ si attende che la deformazione cessi, dopodiché si procede alla riprofilatura del terreno, con alleggerimenti a monte e riporti a valle, fino ad arrivare a interventi più importanti come palafitte, muri, trincee drenanti. "Ovviamente per fare queste opere – osserva Spizzichino – tra progettazione, appalto ed esecuzione ci vuole tempo. Per una piccola frana, almeno un anno, per una frana più importante, in media dai 4 ai 5 anni".

La sensazione che si sia fatto molto poco non è del tutto corretta: si è semplicemente fatto non abbastanza. Negli ultimi vent’anni sono stati avviati più di 9 mila progetti (6 mila dei quali completati) di mitigazione del rischio idrogeologico, con investimenti per 9 miliardi di euro dei quali 3.1 milioni erano per le frane. Ma il problema è che la domanda complessiva per il rischio idrogeologico è oltre i 26 miliardi di euro: quindi si è intervenuti su un terzo del necessario. Le priorità evidentemente erano altre e peraltro la capacità di spesa delle nostre amministrazioni è notoriamente (vedi fondi europei o Pnrr) limitata.

"Adesso – chiosa Spizzichino – è indispensabile continuare a fare monitoraggio e allertamento e al tempo stesso cercare di cantierizzare quante più opere possibile, con priorità alle più urgenti. Vista la scala del problema, ci vuole però anche un patto con i cittadini, che devono esse consapevoli del livello di esposizione nel luogo dove vivono e di fronte ad una allerta meteo devono sapere cosa fare e farlo. Il quadro è chiaro, noi addetti ai lavori sappiamo come intervenire e dove. Ma ora serve uno scatto".