Roma, 8 novembre 2023 – Una buona notizia per Giorgia Meloni. L’Europa, almeno per ora, non guarda in cagnesco il suo trattato con l’Albania, il mai sperimentato accordo per esternalizzare la gestione dei migranti in un paese che della Unione non fa ancora parte. Il commissario europeo all’Allargamento, Oliver Varhelyi, in certa misura coinvolto perché Tirana chiede di entrare nel consesso di Bruxelles, dirama un commento tutt’altro che negativo: "Stiamo analizzando questo modello, che è interessante. Vi è già una buona collaborazione sulla sicurezza fra Albania e Italia. Io credo che qualsiasi tipo di cooperazione fra questi due Paesi per la sicurezza dell’Europa vada apprezzata, e noi saremo pronti magari a contribuire". L’ipotesi, peraltro, sarebbe già stata affrontata dai ministri degli interni Ue nei mesi scorsi: pochi i contrari, con il ministro italiano, Matteo Piantedosi, che a giugno – nell’ambito della discussione del Patto per la migrazione e l’Asilo – prese spunto da lì per allargare il ventaglio dei Paesi sicuri con cui "ampliare e rafforzare la gestione dei flussi migratori", tra i quali rientra – per il governo – l’Albania.
Al netto dello sdoganamento dell’esternalizzazione da parte dell’Unhcr (Agenzia Onu per i rifugiati) tedesca, la seconda buona notizia Giorgia se la garantisce da sola. Il trattato non passerà per il vaglio delle Camere, come reclamava l’opposizione. Il motivo lo spiega il ministro dei rapporti con il Parlamento, Luca Ciriani: “È una collaborazione rafforzata già prevista da due accordi internazionali sottoscritti da Italia e Albania nel 1999 e nel 2017 e ratificati”. Sbotta Elly Schlein: "Gli accordi internazionali passano per il Parlamento, e per noi è inaccettabile che questo non passi". Rilancia Giuseppe Conte: "È l’ennesimo spot: lo spot albanese". A dare una mano alla premier non solo è la prassi – non è la prima volta che un esecutivo elude la riserva di legge sancita dall’articolo 80 della Costituzione – ma pure una sentenza della Consulta che nel 2018 dichiarò inammissibile un conflitto di attribuzione sollevato da parlamentari che lamentavano la presentazione da parte del governo di un disegno di legge di un trattato internazionale. L’opposizione insiste perché "comunque" Giorgia Meloni riferisca in Aula: "Decideranno le Camere", replicano a Chigi.
Non meno acuminate le critiche mosse al primo ministro albanese Edi Rama dalla sua opposizione, di centrodestra. "L’Italia è il paese che ci è stato più vicino dal 1999", dichiara. Per lui non ci sono dubbi di incompatibilità con il diritto internazionale ma "sta a Roma verificare di essere in linea anche con l’accordo di Dublino". La premier, da questo punto di vista, procede convinta. Del resto, la mossa per lei ha anche una valenza propagandistica: l’accordo entrerà in vigore in primavera, a ridosso delle Europee, e a tagliare il nastro in terra albanese sarà lei. Più che nella sfida con l’opposizione, il cui elettorato in materia di immigrazione non è recuperabile, la vera competizione sembra essere quella con la Lega. Salvini non perde occasione per segnalare, sempre tra le righe, le critiche al metodo adottato dall’alleata. Di qui, le voci secondo cui né il vicepremier leghista né quello forzista, Antonio Tajani, né lo stesso titolare dell’Interno, Piantendosi, sarebbero stati messi al corrente della manovra italo-albanese. Palazzo Chigi, tramite le solite fonti, smentisce decisamente: "Ricostruzioni fantasiose. I vicepremier sono stati coinvolti e l’intesa è stata costruita con i ministeri coinvolti interessati" .
Di certo, c’è che Giorgia ha investito molto in questo accordo. "Ho promesso che avrei bloccato l’immigrazione irregolare, ci lavoro molto. Sono certa che se non avessi fatto l’enorme lavoro che ho fatto, i numeri degli ingressi sarebbero stati molto più alti". Ora, più dell’Unione teme che a mettere i bastoni tra le ruote sia la magistratura. Il guardasigilli, Carlo Nordio, già mette le mani avanti: "Io spero che eventuali pronunce della magistratura non vanifichino la futura operatività dell’accordo". Che impegna Roma a spese per 16,5 milioni entro i primi tre mesi dell’entrata in vigore e a creare un fondo di garanzia. Se la trovata basterà a risollevare le quotazioni della premier è incerto.