Abbiamo perso le parole per spiegare la guerra ai bimbi

Viviana

Ponchia

A differenza di padri e nonni, non abbiamo conosciuto la guerra (il Covid non vale). E adesso, da ignoranti totali, siamo costretti a spiegarla ai figli. Quella parola così anacronistica nel nostro perimetro disneyano all’improvviso ci è venuta addosso. Siamo la generazione fortunata con la testa piena di film e vuota di ricordi. Non ci appartiene, non riusciamo a digerirla. Ma ci sentiamo in trappola. Tocca a noi tradurla inventando una metrica, la giusta punteggiatura. E trovare un modo decente di raccontarla ai più piccoli.

C’è chi evita per proteggerli, chi è convinto che tergiversare sia inutile. Il 4 aprile erano già 10.064 i ragazzi ucraini ospitati nelle scuole italiane: non è possibile cambiare argomento quando una creatura di 7 anni rimane impietrita davanti alla televisione e sa che la nuova compagna arriva da quella tempesta. Dai piani alti della didattica si improvvisa la nuova grammatica dell’accoglienza: interpreti, materiale in doppia lingua. Alla frontiera rumena c’erano i clown che spiegavano ai bambini cosa ne sarebbe stato di loro, i pagliacci sono sempre l’ultima spiaggia quando la tragedia diventa insostenibile. Dobbiamo improvvisare anche noi. La psicoterapeuta Gloria Volpato ricorda che non è tanto importante cosa diciamo della guerra ma come, con che qualità emotiva. Le fiabe, tutte generalmente truculente, sono state un buon allenamento. Orchi, lupi e streghe cannibali, orfani derelitti. Un circo spaventoso addomesticato dalla voce di mamma e da una luce blu. Spesso con un lieto fine, sempre con un insegnamento: le persone litigano, si perdono però poi si ritrovano. Ammettere finalmente che la pace non è la condizione istintiva del genere umano farà bene ai bambini e prima ancora a noi, sfrattati dall’illusione di averla scampata.