A lezione di politicamente corretto. "L’Italia eviti la deriva americana"

Il professor Del Giudice lavora in New Mexico: "Ci sono regolamenti che disciplinano le espressioni facciail"

Una statua di Cristoforo Colombo calpestata in Minnesota

Una statua di Cristoforo Colombo calpestata in Minnesota

Una cappa medievale incombe sulla società liberale per antonomasia. Un fondamentalismo zuccherato, eppure assai amaro. È così che Marco Del Giudice, italianissimo professore associato di psicologia all’Università del New Mexico, Stati Uniti, racconta il politicamente corretto a stelle e strisce. "È difficile da contrastare perché sfrutta l’empatia delle persone, e le fa sentire dalla parte giusta della storia". "Una corrente – spiega il docente – che ha preso forma nella sinistra accademica a partire dagli anni ’70 e si è sviluppata nei decenni successivi, virando dalle questioni di classe a quelle delle identità. Via via che gli studenti crescevano, dalle università si è diffusa nelle scuole, nei media e nei dipartimenti di risorse umane delle grandi aziende". In alcuni contesti l’aria è diventata irrespirabile. "Chi si schiera per la libertà di espressione su argomenti controversi rischia di essere insultato e boicottato da studenti e colleghi, o perdere il lavoro". Più che l’America sembra l’Iran dei pasdaran.

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Del Giudice, quali conseguenze può avere il politicamente corretto nel mondo della scuola?

"Negli Usa il politicamente corretto sta invadendo le scuole di ogni ordine e grado. In particolare, nelle università si è venuto a creare un sistema paternalistico e soffocante, con regolamenti che controllano quello che si dice, codici che disciplinano lo humor e in qualche caso le espressioni facciali, e il rischio costante di essere denunciati se colleghi o studenti si sentono offesi. Poi ci sono le purghe dai programmi e dalle biblioteche di libri e autori considerati problematici, il proliferare di uffici e comitati dedicati a sorvegliare e mantenere la purezza ideologica. Insomma, l’armamentario di tutti i movimenti totalitari".

L’effetto ridicolo di alcune derive è sufficiente per evitare emulazioni?

"Solo nelle fasi iniziali, perché una volta che il politicamente corretto viene tradotto in regolamenti e le violazioni vengono punite, anche solo far notare gli aspetti grotteschi di certe derive diventa automaticamente una trasgressione. Il re può essere nudo, ma nessuno fiata più. Il processo va fermato prima che cominci la censura, ma è difficile perché l’inizio è soft e può sembrare un bene, o un male necessario".

Quali conseguenze hanno i tabù e le negazioni sulla formazione dei ragazzi?

"Pessime, perché viene svuotata di contenuti e senso: è impossibile parlare in profondità di temi difficili e importanti se non si può dire niente che possa offendere qualcuno. Il risultato è un’educazione al silenzio e al conformismo, che da un lato crea passività e fragilità, dall’altro può spingere a eccessi nell’altro senso. Un altro effetto drammatico è che la formazione viene politicizzata e schiacciata sul presente; si perde la prospettiva storica e la capacità di confrontarsi con il passato, se non con un atteggiamento di critica distruttiva a priori".

L’approccio degli studenti a certi argomenti sta mutando?

"In questo clima gli studenti vengono formati a diventare attivisti e custodi dell’ortodossia. Molti miei colleghi che si occupano di temi controversi vivono nella paura di essere denunciati o presi di mira da campagne sui social. Spesso smettono di insegnare gli argomenti a rischio, ma così i ragazzi non vengono mai esposti a un vero dibattito o sfidati nelle loro convinzioni".

Quali i temi più controversi?

"Le questioni di genere, quelle etniche-razziali, l‘orientamento sessuale. Ma anche la disabilità, la meritocrazia; insomma, qualsiasi cosa possa essere vista in termini di “oppressione”. La questione transgender è particolarmente densa di tabù, al punto che perfino in alcune facoltà di medicina sta diventando pericoloso dire che esistono solo due sessi biologici o identificare i pazienti come maschi e femmine".

L’Italia rischia la stesso destino?

"Difficile fare previsioni. Il contesto culturale è diverso e secondo me più resiliente. Ma sarebbe un errore illudersi che l’Italia sia al riparo, i social media tendono a creare una monocultura globale".