{{IMG_SX}}COMO, 9 giugno 2008 - È RIMASTA intrappolata per anni in una banca dati, alla ricerca di un nome e un cognome che la identificassero. Un’impronta digitale come centinaia e migliaia di altre raccolte sulle scene di delitti risolti o parzialmente ancora da comprendere, e che di tanto in tanto passa al vaglio degli investigatori di un ufficio della polizia scientifica centrale di Roma.
Ma qualche mese fa, l’impronta di un pollice rimasta sul parabrezza della Mini Minor dalla quale venne prelevata Cristina Mazzotti la sera del 26 giugno 1975, quando fu rapita davanti alla villa dei suoi genitori a Eupilio, è stata collegata a una persona: un uomo di 54 anni che era stato identificato e incarcerato per altre vicende.
DEMETRIO Latella in cella era finito dopo essersi legato per breve tempo al clan dei catanesi di Epaminonda, ma un periodo abbastanza lungo tanto da lasciare le sue impronte digitali a disposizione di quel confronto infinito che viene fatto con gli elementi forniti dai gabinetti regionali, e che più volte ha portato a risultati importanti, facendo riaprire vicende irrisolte e seppellite nelle cronache.
Come il rapimento di Cristina Mazzotti, appunto, prima donna, una adolescente in realtà, scelta come obiettivo in quella stagione tragica, una ragazzina il cui sequestro sconvolse tutta Italia, e che non tornò mai più a casa. Quella sera a casa ci stava tornando con due amici dopo una festa di fine anno scolastico. Una conclusione tragica che i suoi compagni mai si sarebbero aspettati.
IL SUO CORPO venne ritrovato tre mesi dopo, a inizio settembre, in una discarica in provincia di Novara: gettata un mese prima in mezzo ai rifiuti, quando la sua vita scivolò tra le dita dei rapitori, che per settimane l’avevano tenuta in una buca sottoterra in un cascinale, riempita di sedativi ai quali non sopravvisse. Di quel rapimento le indagini di allora non arrivarono mai a identificare gli esecutori materiali, ma solo mandanti e organizzatori a distanza.
UN CERCHIO che ora forse sta per essere chiuso da questa nuova risultanza, arrivata dopo tanti anni, ma mai troppo tardi per ricostruire una verità così importante. Latella, raggiunto mesi fa da avviso di garanzia per questa vicenda e già convocato dal magistrato della Dda di Torino, che ha in carico le indagini, non si sarebbe potuto esimere dal fare alcune ammissioni che riguardano la presenza di quella sua impronta digitale così netta, in un punto che non gli lascerebbe grande margine per raccontare una storia diversa.
MA QUELLA sera Latella non sarebbe stato solo, e sugli altri due complici per il momento è ancora buio assoluto. Cosa accadde in quei pochi minuti, fin da subito venne ricostruito con precisione, attraverso le testimonianze dei due amici di Cristina che erano con lei in auto, Carlo ed Emanuela. Furono loro a raccontare della Giulia e della 125 che li affiancarono quella sera di giugno, dell’uomo con il volto coperto che puntò le armi verso di loro e chiese chi era Cristina Mazzotti. «Sono io», aveva risposto lei timidamente, consegnandosi alla banda che l’avrebbe tenuta sequestrata per mesi, e poi lasciata morire nell’incapacità di gestire un ostaggio così impegnativo. E così a lungo.
La ragazza venne fatta salire sulla Giulia, gli amici legati in auto, dove riuscirono a liberarsi e a chiamare aiuto solo un’ora dopo, quando ormai era tardi per rintracciare i rapitori. In quei pochi attimi, Latella avrebbe lasciato l’impronta sul parabrezza, mentre si avvicinava all’abitacolo per capire chi fosse la ragazza che avevano avuto l’ordine di prendere.
NESSUN ALTRO nesso, se non quell’istante, sembrerebbe esistere tra lui e Cristina Mazzotti, tra quel rapimento e l’impronta del suo pollice rimasta per oltre trent’anni in una banca dati dattiloscopica, nella speranza che la progressiva evoluzione degli strumenti scientifici di indagine, e di gestione delle tracce, arrivasse a ricavarne delle informazioni capaci di fare ripartire uno dei capitoli più dolorosi delle cronache italiane, riguardo al quale rimangono ancora tanti aspetti che non sono mai stati ricostruiti.
FU PAGATO OLTRE UN MILIARDO
HELIOS MAZZOTTI sentì la voce dei rapitori di sua figlia il giorno dopo il sequestro, quando gli chiesero un riscatto record: cinque miliardi di lire. Fu in quei giorni che l’uomo ebbe il primo attacco di cuore, la prima di quelle crisi che un anno dopo non gli lasciarono scampo. La famiglia fece appelli attraverso i giornali, spiegando che mai avrebbe potuto avere disponibilità di quella cifra. Così la richiesta scese a un miliardo. Pochi giorni dopo il padre incontrò i rapitori in segreto in un appartamento di Appiano Gentile, consegnò loro un miliardo e cinquanta milioni, in cambio di rassicurazioni di un immediato rilascio che non avvenne mai.
La svolta drammatica il primo settembre, quando Gianni De Simone, all’epoca direttore del giornale L’Ordine di Como, chiamò la famiglia per avvisarla che il corpo di Cristina era stato trovato in una discarica nei pressi di Sesto Calende. Nascosta da quaranta giorni sotto i rifiuti, quasi irriconoscibile. Nel frattempo in Svizzera era stato arrestato uno dei componenti della banda, Libero Ballinari, fermato mentre cercava di riciclare una parte del riscatto del sequestro. 90 milioni che avevano generato i sospetti del direttore della filiale. A quel punto la polizia arrivò abbastanza velocemente a buona parte della banda, gente priva di uno spiccato spessore professionale, ma con agganci con gli uomini dell’anonima sequestri.
VENNERO FUORI, tra gli altri, i nomi di Giuliano Angelini e di Loredana Petroncini, Rosa Cristiano, Luigi Gemmi, Alberto Menzaghi, e Antonino Giacobbe, tutta gente che all’epoca aveva tra i 20 e 30 anni. Il processo in primo grado di svolse a Novara: otto ergastoli e un’assoluzione, quella di Francesco Gaetani, parente di Antonino Giacobbe. Le pene meno pesanti, tra i 23 e 30 anni di carcere, furono per l’autista e i telefonisti della banda: Menzaghi, Giuseppe Milan, Sebastiano Spadaro. La sentenza di secondo grado attenuò leggermente le pene, che vennero però ripristinate dal definitivo, nel 1980, quando anche Libero Ballinari, colui che aveva seppellito Cristina in discarica, andò incontro all’ergastolo.
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