{{IMG_SX}}Bologna, 25 maggio - MI ACCOGLIE nel cortiletto 4x4 dove sta trascorrendo la sua ora d’aria mattutina, tutta sola ma sorvegliata a vista da una guardia carceraria. E’ l’ombra di quella donna che avevo conosciuto qualche anno fa, lassù, sull’Appennino bolognese: allora, Anna Maria sperava ancora nella giustizia. Eravamo alla vigilia del processo d’appello e Anna Maria, sostenuta dal parroco don Marco e dalle amiche del comitato in sua difesa, m’invitò a cena assieme al collega Gianni Leoni e m’inondò di carte che avrebbero dimostrato la propria innocenza: non era stata lei a uccidere il piccolo Samuele. Oggi, dopo la sentenza definitiva della Cassazione che la condanna a sedici anni di carcere, le sembra davvero che sia crollato il mondo addosso: «Sono delusa da tutto, ma ho anche tanta rabbia in corpo».

 

E’ VESTITA di grigio, un paio di pantaloni e una maglietta, e, quando mi vede alla porta d’ingresso del cortiletto, m’abbraccia ma non riesce a nascondere il suo risentimento contro l’intera categoria dei giornalisti. Per lei io sono sempre un giornalista, anche se ieri ho potuto visitarla come parlamentare nel carcere della Dozza, a Bologna. «Scrivevate tutto quello che vi dicevano i giudici. Vi chiedevo di guardare le carte, ma voi non le avete mai lette veramente». Anna Maria è una donna fragile, minuta, pallidissima, senza più speranze. Per lei è stato commesso un doppio delitto: prima, dice, le hanno ammazzato il figlio, il dolore più grande per una mamma, e ricorda ancora, la scena di quell’omicidio, il sangue dappertutto, l’inferno, il caos. Poi l’hanno condannata definitivamente per quell’omicidio mentre il vero assassino gira libero e indisturbato.

 

«UNA TREMENDA ingiustizia è stata commessa, anche nei confronti della memoria del piccolo Samuele». Non posso non abbracciarla di nuovo, quando si mette a piangere. Le lacrime le rigano il viso e io mi chiedo: come può una madre fingere tanto se fosse davvero lei l’assassina? Sì, aggiunge, sarebbe stato molto meglio che quella bastonata si fosse abbattuta sul suo capo: avrebbe certo sofferto di meno. Le chiedo se preferirebbe, a questo punto, morire. Ma Annamaria risponde, senza esitazioni, di no: una che vuole morire smetterebbe di mangiare, ma lei vuole vivere, vivere per i suoi figli Davide e Gioele, vivere per suo marito, la sua famiglia e per la memoria di Samuele.

 

E’ ANCORA aggrappata alla vita, Anna Maria, e quando le domando se i suoi avvocati stiano pensando alla grazia da chiedere al presidente Giorgio Napolitano — un’ipotesi avanzata dal quotidiano Liberazione e su cui è intervenuto l’ex presidente della Commissione per la riforma del codice penale, Giuliano Pisapia, che riterrebbe invece più opportuna la commutazione della detenzione da carceraria a domicialiare secondo l’articolo 87 della Costituzione — non risponde di no: «Ci stiamo pensando».

 

SAREBBE davvero una via d’uscita che le consentirebbe di tornare a vivere con i figli, anche se a molti potrebbe apparire quasi come un’ammissione di colpa, quell’ammissione di colpa che lei, invece, ha sempre rifiutato anche quando le chiesero di invocare la seminfermità di mente: «Ma io non sono matta. Hanno persino sostenuto che fossi sonnambula e che, in un momento di trance, avessi poi combinato tutto quel macello». No, lei non è matta, né sonnambula, come tanti giornali e tanti psicologi hanno continuato ad affermare con grande arroganza e, ancora adesso, non ricorre ad alcuna medicina.

 

CERCO di difendere, in qualche modo, la categoria dei giornalisti accusati di superficialità e ricordo ad Anna Maria che, in questi giorni, molti quotidiani hanno preso le sue difese o, comunque, non hanno nascosto i dubbi sulla sua colpevolezza sollevati da tanta gente, ora che giustizia è stata fatta. Ma lei fa subito cenno di no con la testa: non legge più i giornali, anche se nella piccola cella in cui vive isolata sotto l’occhio vigile di alcune poliziotte che fanno i turni e che sono già diventate le sue migliori confidenti, c’è un televisore. Non ha perso i contatti con il resto del mondo.

 

LE CHIEDO come sono le sue prigioni, come trascorre le giornate in carcere: «Parlo molto, qui tra il personale carcerario ho trovato gente meravigliosa...». Aggiunge anche, e me lo conferma poi il vice-commissario delle carceri, una giovane e graziosa tenente di Avellino, che non c’è stata alcuna manifestazione di protesta da parte di altre detenute quando, mercoledì notte, lei è arrivata alla Dozza: tutte invenzioni dei giornali... Come un’invenzione di un giornale è stata la riproduzione delle immagini del suo pigiama, in quel tremendo mattino di Cogne di oltre sei anni fa. Immagini in cui si vedono le macchie di sangue, il sangue di Samuele, quando lo stesso giudice parla, semmai, di minuscole tracce, anche all’interno dello stesso pigiama. Cerco di confortare, in qualche modo, Anna Maria: davanti a me c’è, in questo momento, al di là di tutto quello che è successo, della colpevolezza o dell’innocenza, una persona disperata, che ha bisogno di solidarietà e di affetto.

 

HA TROVATO conforto nella religione? Sì, anche se è dura, molto dura... Ha parlato con il suo parroco che, in tutto questo tempo, le è stato sempre molto vicino? Sì, ma solo per interposta persona. Il pensiero di Anna Maria va sempre ai suoi figli Davide e Gioele: «Colpendo me, hanno colpito anche loro...». E, per la seconda volta, si mette a piangere. Li ha visti, Davide e Gioele, venerdì sera in carcere, ma di questo incontro non vuole proprio parlare: i bambini sono stati fin troppo strumentalizzati. Stavolta la Franzoni ricorda molto spesso anche il marito Stefano che, in tutti questi anni, ha sempre difeso la moglie. «Ora è un uomo distrutto, distrutto come me».

 

ECCO, allora, che mi affiora un altro dubbio: come è possibile che un padre, se anche avesse avuto il minimo dubbio sull’innocenza di Anna Maria, avesse concepito con lei un altro figlio poco tempo dopo la morte di Samuele? E come è anche possibile che, a difenderla, ci sia sempre stato il suocero Mario Lorenzi con cui pure, mi confessa oggi la Franzoni, i rapporti non erano mai stati idilliaci prima del delitto?
Domando ad Anna Maria se lei adesso odia gli italiani. Lei dice di no: ha già ricevuto, in questi giorni, tante lettere di madri e di padri che le esprimono la loro vicinanza, la loro solidarietà.

 

IL SUO ODIO va, semmai, a quelle persone che oggi l’hanno ridotta in quello stato: è il momento peggiore della sua vita, ma spera sempre in una giustizia superiore. Il colloquio volge al termine. Nessuno mi chiede di concludere. Non me lo chiede Anna Maria, né il vice-commissario che mi ha accompagnato: dopo oltre mezz’ora di colloquio, là in quell’angusto cortile senza luce delle carceri di Bologna, mi sento però anch’io prostrato e sofferente. Domando ad Anna Maria cosa io possa fare per lei. Si raccomanda di starle vicino, di andarla a trovare spesso in carcere: ha tanto bisogno di parlare. Ho promesso che lo farò.