{{IMG_SX}} RIPOLI SANTA CRISTINA (Bologna), 17 maggio 2008 - È AVVILITA, ribadisce la propria innocenza ed è soprattutto preoccupatissima per i due figlioletti. «Se dovesse andar male, come faranno senza la loro mamma?», si strugge con i vicini e con le amiche. Alla vigilia della sentenza della Corte di cassazione, determinante per il suo futuro, Annamaria Franzoni manda in giro l’immagine di una donna in ansia, sfinita dal pensiero che i suoi bambini possano subire un grande dolore.

I modi e le attività sembrano quelli di sempre, e quando esce dalla piccola dimora in fondo alla discesa, dove vive con il marito Stefano e con i loro figli — Gioele, 5 anni, e Davide, 13 —, la Franzoni è gentile e sorridente, così com’è puntuale alla messa della domenica, precisa nella spesa quotidiana e instancabile nel lavoro in parrocchia tra i quaranta bambini in arrivo dai paesi tutt’intorno, impegnati nei corsi di danza o in quelli di musica o nel catechismo. «Quando don Marco è a Roma, lei lo sostituisce: è bravissima, come un vero vice parroco», dicono i paesani.

 

MA È UN RITRATTO per certi versi solo di facciata, perché nell’animo della ‘mamma di Cogne’, condannata in primo grado a trent’anni e in appello a sedici, si agitano gli incubi, umani e comprensibili, di un conto alla rovescia ormai vicinissimo allo zero. E infatti, mercoledì 21, la Suprema Corte deciderà per il carcere o per un ‘tutto da rifare’ che rilancerebbe la speranza di un finale giudiziario diverso. Così, nell’attesa della sentenza, Annamaria Franzoni si lascia andare a momenti di sconforto, non tanto per il timore di un futuro dietro le sbarre quanto piuttosto per le possibili conseguenze legate al suo arresto.


«Io non so niente di preciso, ma se così fosse mi sembrerebbe una situazione normale. Il momento è delicato e una persona può avere qualche momento di difficoltà», dice don Marco Baroncini, il parroco. «Non ho ucciso il mio piccolo Samuele e non avrò giustizia fino a quando l’assassino non verrà identificato. In questo momento, però, sono molto preoccupata soprattutto per i miei bambini, ancora piccoli. Penso al carcere come a un provvedimento ingiusto, e il peso maggiore, in questa eventualità, ricadrebbe proprio sui ragazzi costretti a crescere per un lungo periodo lontano dalla mamma», ha detto la Franzoni prima di barricarsi, con i famigliari, dietro a un muro di silenzio e, insieme ai parenti e agli amici, nello slogan «rivolgetevi all’avvocatessa Savio». Perché da queste parti è un ritornello rilanciato quasi di casa in casa, con gli inquilini perfettamente allineati sull’ordine dello studio legale Chicco, di Torino, di cui la Savio fa parte.

 

E a chi bussa, Annamaria Franzoni apre la porta, sorride gentile, tende la mano nel saluto, ma subito precisa che non dirà nulla. «Non voglio essere maleducata, ma in questa fase preferisco tacere. Penso che sia giusto così e spero che i giornalisti, anche nei prossimi giorni, non vengano qui», ripete.

POCHE FRASI ribadite ogni volta anche a Monteacuto Vallese, il paesino dove abitano i genitori e i fratelli. Annamaria ci va quasi ogni giorno con il suo bimbo più piccolo iscritto all’asilo, e qualche volta per dare una mano alla madre e alle sorelle nella gestione dell’agriturismo di famiglia, tra i boschi oltre le case. «Vengono in tanti, per pranzi di nozze, per compleanni e per altre ricorrenze e Annamaria è sempre molto disponibile. Lavora in cucina oppure serve a tavola e, nonostante la situazione, sembra abbastanza serena», raccontano a Monteacuto. Intanto, implacabile, l’orologio scandisce secondi pesanti, spinge lontano il sonno e affolla la mente di quesiti, di paure e di speranze.

COME FINIRÀ? Il ‘toto Annamaria’ corre da un vicolo a una casa, dall’unica bottega del paesino alle soste nel giardinetto pubblico, nei commenti del dopo cena e negli incontri in chiesa dove c’è perfino chi prega «perché tutto vada bene». Ed è una solidarietà compatta, o almeno così sembra, anche perché chi la pensa in maniera diversa scuote la testa, allunga il passo e, comunque, tiene la bocca chiusa. «Ognuno può pensarla come vuole, ma comunque vada questa donna rimane una vittima. Da più di sei anni, infatti, sopporta il peso di un’accusa terribile sostenuta solo dagli indizi. Per noi che la conosciamo bene non è un’assassina. Ecco perché le siamo vicini in questo momento drammatico e decisivo», mettono in onda le voci.


Lei non parla, ma si immagina oltre le cascate di gerani nell’ingresso, in giardino e sulle finestrelle della casa in fondo allo stradino, tormentata da pensieri in lotta tra speranza e disperazione.