{{IMG_SX}}Firenze,11 febbraio 2008 - In principio fu il librettista di Mozart. Viene fatta risalire a Lorenzo Da Ponte, primo professore di letteratura italiana alla Columbia University di New York, autore di libretti mozartiani, la prestigiosa tradizione accademica italiana negli Usa. Erano i primi anni del 1800.

 

Oggi sono quasi diecimila i professori, gli studiosi e gli scienziati italiani in America. Molti di loro si sono costruiti una posizione di prestigio internazionale e di valore mondiale. Si deve all’algoritmo Viterbi, ingegnere di origini bergamasche, il funzionamento dei telefonini GSM, ad esempio. Solo che di questi fuoriclasse della cultura, si parla sempre troppo poco. Spesso devono vincere un Nobel per essere ricordati, mentre siamo capaci di non perderci un passaggio delle imprese, spesso modeste, di un calciatore o di un giocatore di basket all’estero.

Da pochi mesi si sono costituiti in un’associazione no-profit, la Issnaf, «The Italian Scientist and Scholars of North America Foundation». Di questa comunità accademica, con tre premi Nobel fra i fondatori, fa parte anche Gabriele Boccaccini, fiorentino, cinquant’anni, dal 1992 professore all’Università del Michigan, dove insegna Nuovo Testamento e Giudaismo del Secondo Tempio, autore di testi fondamentali sulla storia e la religione degli ebrei al tempo di Gesù. E questa è la sua testimonianza.


Professor Boccaccini, lei fa parte del flusso di cervelli dall’Italia verso l’America. Qual è la sua esperienza?
«Dal punto di vista personale e professionale trovo che sia un’esperienza esaltante. Non parlo solo delle illimitate possibilità che si offrono alla ricerca. Qui, per otto mesi all’anno, giovani talenti da tutto il mondo risiedono e lavorano a tempo pieno. Con le centinaia di essi che affollano i miei corsi, la frequentazione è quotidiana anche al di fuori dell’orario delle lezioni».

Qual è il peso della presenza italiana, oggi, nelle università e nella cultura americana?
«La presenza italiana nell’università americana ha sempre avuto una tradizione di eccellenza, da Lorenzo Da Ponte, al rabbino livornese Sabato Morais (fondatore del Jewish Theological Seminary), a Gaetano Lanza, a Gaetano Salvemini, ai premi Nobel: Enrico Fermi, Emilio Segrè, Salvatore Luria, Franco Modigliani, Renato Dulbecco, Mario Capecchi e Rita Levi-Montalcini… Ma dagli anni Novanta stiamo assistendo ad una vera e propria invasione, di cui presto vedremo frutti abbondanti».

Vi state organizzando, come accademici, anche per rappresentare una risorsa importante per il sistema italiano. Come?
«Altri paesi europei (o asiatici, come la Cina, il Giappone o l’India) sono molto più avanti di noi per quanto riguarda l’organizzazione della propria ‘diaspora’ intellettuale. Negli ultimi anni qualcosa si sta muovendo anche da noi, ma ancora con troppa lentezza. Non sappiamo nemmeno chi siamo, non abbiamo neppure un censimento completo cui far riferimento. Dall’Italia, poi, ci danno per ‘persi’, mentre i nostri colleghi di altre nazionalità sono un punto di riferimento essenziale per tutto il sistema universitario e culturale dei loro paesi. Il loro esempio ci mostra quanto enormi siano i vantaggi del lavorare assieme e far gruppo».


Che cosa ha pensato, quando il New York Times ha definito l’Italia un paese triste e depresso?
«Molta rabbia, perché in quanto a potenzialità e creatività noi italiani non siamo secondi a nessuno. Ma è vero che vista dal di fuori l’Italia appare oggi un Paese molto provinciale, diviso in fazioni più impegnate a farsi la guerra tra di loro che a competere a livello internazionale, ingabbiato in un sistema borbonico, dedito più a disfare che a fare, dove occorrono anni ed anni anche per le decisioni più urgenti. Noi italiani siamo bravissimi nel farci del male».

Che cosa vorrebbe chiedere alla politica italiana?
«Uno scatto di orgoglio e di creatività. In ciascuno e in tutti i Paesi del mondo ci dovrebbe essere un’unica associazione-ombrello riconosciuta dallo Stato italiano, che ci rappresenti tutti, con nostri organi elettivi. L’organizzazione della diaspora italiana nel mondo e l’insegnamento dell’italiano ai nostri figli (che alcuni paesi europei già rendono obbligatorio anche ai propri cittadini residenti all’estero attraverso l’istituzione di una rete di doposcuola) sono priorità nazionali».


L’Italia, dal suo punto di osservazione, di che cosa avrebbe bisogno, prima di tutto?
«Di porre il merito al centro di tutto. La scuola e l’università italiana devono offrire un percorso dignitoso di formazione per tutti, ma anche offrire percorsi differenziati per coloro che eccellono nei singoli campi: dalle scienze all’umanistica, alle arti. La famosa ‘selezione’, che abbiamo tutti giustamente criticato quando significava solo esclusione dei ceti più deboli, deve funzionare al contrario, come capacità di far emergere, premiare e valorizzare i talenti e i meriti di ciascuno».


Un suo giudizio sull’università italiana?
« L’università italiana ha individualità di assoluto livello mondiale. Ma il sistema nel suo complesso fa acqua da tutte le parti, perché non premia la meritocrazia e l’efficienza. Si ragiona poi come se l’Italia fosse grande come gli Stati Uniti, invece che come uno dei suoi 50 Stati. L’Italia semplicemente non ha le risorse (pubbliche e private) per sostenere decine e decine di università. A meno che, come avviene qui in America, non si faccia una chiara distinzione tra le (pochissime) università che offrono dottorato e laurea e la stragrande maggioranza che offrono solo la laurea breve. L’equipollenza dei titoli e dei salari è il limite maggiore del sistema italiano».


Insomma è un sistema tutto da buttare.
«Assolutamente no. Quella sapienza umanistica che ci deriva dall’aver ripetuto cronologicamente a scuola, ciclo dopo ciclo, la storia universale (della letteratura, delle arti e delle scienze) è una cosa che tutto il mondo ci invidia. Invece di smantellare in modo scriteriato ciò che ci fa forti si dovrebbe integrarlo con ciò in cui siamo deboli: la scarsa conoscenza parlata dell’inglese fin dalla scuola materna è forse il limite più serio allo sviluppo dei nostri talenti».


A differenza di altri paesi europei, in Italia non si parla quasi mai di ‘rientro di cervelli’. Lo considera anche questo un limite per il Paese?
«Parlare di ritorno di cervelli è una stupidaggine. In un’epoca di globalizzazione vince chi ‘conquista’ il mondo, non chi si ritira nella propria tana. E conquista il mondo chi meglio organizza la propria ‘diaspora’ a livello internazionale e meglio sa vendersi nel mercato globale».


Lei ha mai pensato alla possibilità di tornare?
«Finché non si capisce che siamo più utili all’Italia dove siamo che se torniamo, non si andrà mai avanti. Io sono orgoglioso di essere italiano e di far parte di quella diaspora che tiene alto nel mondo il prestigio dell’Italia e aspetta solo di essere ascoltata e usata a servizio del Paese».