{{IMG_SX}}TREVISO 20 aprile 2007 - Dopo l’inferno di fuoco e fumo, la notte acida. Avevano ragione i carabinieri del Noe, velatamente accusati di aver ingenerato nella popolazione i germi dell’allarmismo per il disastro alla De Longhi.

Le rilevazioni effettuate nell’aria la mezzanotte di mercoledì hanno individuato una concentrazione di diossine quasi tre volte superiore al limite di emissioni massime consentito agli inceneritori: 270 picogrammi per metro cubo (contro i 100 di soglia), scesi a 240 un’ora più tardi.


L’ARPAV sostiene che la situazione è comunque sotto controllo, che non vi sono ricadute per la salute della popolazione, perché i veleni sprigionati dall’incendio sono comunque stati «diluiti dalla turbolenza atmosferica», ma la preoccupazione resta.

E all’indomani altro fuoco nella provincia di Treviso: brucia a Cordignano la ‘Cordigomme e piume’, azienda produttrice di materassi. Un solo lavoratore ustionato a una mano. Altri mezzi di vigili del fuoco sfrecciano a sirene spiegate dall’altra parte della città, per spingersi poi trenta chilometri oltre. Un secondo incidente più tardi, a Cison di Valmarino. Stavolta si tratta di materie plastiche, della Sat Plast.

LA GENTE non si sente affatto tranquilla. Dopo la grande paura, le paure che scavano, un po’ alla volta. Da dentro. A innescare la voracità bulimica delle fiamme alla De Longhi potrebbe essere stato un incidente nella manutenzione al soffitto del capannone, perché per l’ intervento di impermeabilizzazione del tetto si richiedeva l’uso di fiamme libere: errore umano, non un cortocircuito.

ALL’INDOMANI del rogo apocalittico allo stabilimento a poche centinaia di metri dalle mura che cingono il centro storico di Treviso, l’ipotesi più credibile sembra appunto quella dell’errore umano. Il procuratore Antonio Fojadelli non conferma né smentisce. L’indagine sarà lunga e difficile. Prima gli accertamenti dei vigili del fuoco, che ancora ieri mattina erano sul posto per spegnere gli ultimi focolai, i tecnici, la ricognizione delle testimonianze, poi i risultati delle perizie. Sono tanti gli interrogativi che dovranno trovare una risposta, a cominciare dall’efficienza del sistema antincendio.


Quello che ha funzionato sono stati invece i depuratori aziendali che hanno impedito l’inquinamento del Sile e le procedure di evacuazione dello stabilimento che dà lavoro a circa 800 operai. Non andranno in cassa integrazione, come si temeva, perché le linee di produzione distrutte saranno trasferite a breve nello stabilimento di Mignagola, sempre nella periferia di Treviso.

MA QUELLO che si legge nelle facce dei trevigiani, non solo di chi abita a ridosso dello stabilimento, è che c’è una vittima in questa brutta storia di paura nera come il gigantesco fungo di gas, miasmi e veleni che si è levato sopra le loro teste: la credibilità delle istituzioni.


Dubita, la gente, delle rassicurazioni dei politici sui monitoraggi di aria e acqua, dubita degli stessi tecnici che hanno scongiurato rischi per la popolazione, pur ammettendo che tra i 20 chilometri che dividono Treviso da Montebelluna, «c’è l’inquinamento atmosferico tipico di una cittadina».

CITTADINA sconosciuta al catasto, invisibile tra le campagne, intercettata soltanto dalle apparecchiature di precisione. Di mattina l’aria ieri era quasi irrespirabile, peggio del giorno prima, forse perché era girato quel vento che invece mercoledì, spirando in direzione opposta, a Nord-Ovest, ha scongiurato che le fiamme aggredissero anche le due palazzine del centro operativo che tiene in vita la De Longhi.


Lo scetticismo della gente e il timore si potevano concretamente misurare anche al pronto soccorso dell’ospedale, dove si è presentata gente che accusava difficoltà respiratorie, o nelle 10 mila mascherine protettive andate a ruba in poche ore nelle farmacie.

DUE SCUOLE, che hanno sede nei pressi dell’area colpita dall’incendio, una materna e una elementare, rimarranno chiuse fino a sabato. Le altre erano aperte. La De Longhi, visitata mentre i pompieri erano ancora all’opera con gli idranti per domare le ultime lingue di fuoco, offriva un’immagine spettrale.
I residenti delle villette e piccoli condomini che si affacciano su via Steit, in piedi sulle soglie delle loro case o vicino al cancello, chi con la mascherina sulla bocca, chi senza, guardavano in fondo alla strada, in silenzio, gli occhi in quel silenzio perso, parenti in anticamera davanti alla porta chiusa di un reparto di Rianimazione.

GUARDAVANO tutti là, verso il capannone distrutto, verso quell’enorme tetto ripiegato risucchiato sul pavimento dalla forza devastante delle fiamme. Un ammasso di macerie fumanti.
Il peggior accostamento immaginabile al piccolo parco giochi, agli scivoli e alle altalene, all’unica chiazza di verde scampata in quella che una volta era aperta campagna, trenta metri prima dell’ingresso della fabbrica. Nell’aria l’odore acre e insopportabile di plastica bruciata, o di chissà cosa. Gli occhi che bruciano.