Urne vuote. Lo Stato rischia un cortocircuito

l virus dell’astensionismo

Tradizionalmente i politici si interessano al dato dell’astensione nelle due ore che seguono la chiusura dei seggi, quando devono commentare gli esiti delle urne senza però avere ancora in mano i risultati.  Si stracciano le vesti del calo dell’affluenza, giurano che "è un grave problema2, ma quando poi arrivano i dati veri, quelli con i vincitori, gli sconfitti e i seggi da spartirsi tanti saluti al numero dei votanti e chi si è visto si è visto. Stavolta però il dato è così allarmante che sarebbe un errore capitale consegnare tutto ai libri di storia o alle analisi degli esperti. Un numero così basso di votanti non si era mai registrato, a conferma di una tendenza storica che viene da lontano.

Nelle elezioni del 1948, quelle dei fronti popolari, votò il 92 per cento degli aventi diritto, alle politiche del 2018 si è di poco superato il 72. Domenica al secondo turno la media nazionale è stata del 44 per cento, e ci sono vere e proprie città nelle città che sono rimaste a casa, indifferenti, svogliate, apatiche, sfiduciate. A stare a sentire sociologi e politologi le ragioni del calo sono così tante che quasi quasi verrebbe la voglia di giudicarlo non solo inarrestabile, quanto giusto e accettabile. Sarebbe un inganno, non votare non è mai un bene.

Quella di domenica scorsa a Roma è stata la percentuale di affluenza più bassa dal 1993, e non è una data a caso. Il 1993 segna la fase finale della prima repubblica, ormai stanca a sfribrata e in quanto tale priva di attrattiva. Nel 2021 pare quasi che lo schema "fine di un’epoca-fine della partecipazione" si sia riproposto, con in mezzo c’è tutta la parabola di un’altra fase della storia italiana, quella dell’antipolitica che prima ha prodotto tangentopoli, poi la narrazione anticasta, infine populismo, di destra e di sinistra. Entusiasmando, illudendo, deludendo. Il risultato di questo crack "di sistema" è stato che la politica si è svuotata e non è un caso che i premier degli ultimi dieci non siano stati parlamentari. Draghi è l’ultimo della serie. Non sentendosi "necessari", gli elettori restano a casa. Specie in quelle zone, le periferie, più vicine alla marginalità sociale ed economica e per questo più inclini alla protesta. Fino a poco tempo fa erano state una certa destra e i grillini a intercettarne il grido, legittimo, e a declinarlo in quel linguaggio diretto, in certi casi estremo, che chiamiamo populismo. Quel modello come abbiamo visto è finito, e c’è adesso bisogno di ricostruire un canale di comunicazione e di fiducia. E’ questo che i partiti fanno fatica a instaurare, chiamati come sono a uno sforzo e a una proposta fatta di idee, ascolto, competenza. In sostanza a un salto verso il nuovo. Non sarà facile, ma per loro, e per la democrazia, è l’unico modo per sopravvivere e non venire investiti, come nel 1993, da un altro leviatano che finirà per inghiottirli ancora.