Papa Benedetto XVI (ImagoE)
Era una bella mente, assolutamente portata per l’astrazione che in teologia tocca l’apice della sua tensione metafisica. Ma non aveva molta capacità comunicativa. Papa Ratzinger era piuttosto timido e riservato. Ricordo bene il giorno della sua elezione nell’aprile del 2005, l’espressione del volto dal sorriso tirato, dallo sguardo fisso ma quasi allarmato, i gesti misurati, le parole che frenavano l’emozione affidandosi alla citazione evangelica dell’"umile operaio nella vigna del Signore".
E sempre poi negli otto anni del suo pontificato si coglieva questa sua dimensione sospesa, trattenuta, protesa a mostrare il suo pensiero ma tormentata dalla consapevole altezza a cui nella sua mente era nato, nutrito com’era di una sterminata cultura teologica e biblica, di una perfetta conoscenza delle Scritture. Si sentiva che il raffinato intellettuale prevaleva largamente sul pastore universale.
I suoi erano discorsi da studiare, più che da ascoltare, per quella ricchezza che da una parte pareva giustificare la scelta del Sacro Collegio dei cardinali, dall’altra, sembrava destinata però ad accettare il rischio di perdere il contatto diretto con le folle. Queste amano emozionarsi, vibrare, partecipare, commuoversi, prima ancora di capire e meditare. C’è una parte teatrale nel compito del Vicario di Cristo, che la Chiesa con sapienza coltiva da secoli. Ratzinger è stato una grande eminenza grigia di un grande Papa, Giovanni Paolo II, di cui era consigliere in materia teologica ascoltatissimo. In quel ruolo dietro le quinte dava il meglio di sé. Averlo esposto sulla prima linea del fuoco, come Pontefice non so quanto abbia giovato all’universalità del suo mandato. Difficile evitare il confronto con quell’amato parroco del mondo che gli è succeduto, quel Papa Francesco che ha la grazia di una immediatezza assoluta, che con le sue parole passa subito dalla testa alla pancia di chi lo ascolta.