Recuperiamo il rigore delle scelte

Fino ad ora il problema lo abbiamo banalizzato. Una canna? Dai, non facciamone un dramma, chi non se n’è fatta almeno una? Il sottoscritto, ad esempio. Ma se lo dici, hai quasi paura di fare la figura dello sfigato. O del reperto archeologico, come se qualche tempo fa i giovani fumassero solo lo zucchero filato. Così, nella società in cui tutto è relativo, anche la droga è diventata leggera, dunque di uso e consumo ordinario. Come dare del tu (o un ceffone) a un insegnante, come bere due litri di birra prima di cena, come buttare un pensionato giù da una scogliera per vedere che effetto fa.

«Ho fatto una cavolata», dicono. Già. Come aver dimenticato il diario a casa. O come sparare alla testa di Luca Sacchi. Una cavolata che non si inserisce in una guerra di narcotrafficanti, o da Gomorra. Ma molto probabilmente in una ‘banale’ fornitura di marijuana. Se Milano è capitale europea del consumo di cocaina, però nessuno dà segni concreti di contrasto; se sono rare le festicciole in cui non circola un po’ di roba bianca accanto ai tramezzini, ma nessun ospite si alza e se ne va; se una ‘tirata’ di fumo è considerata come bere un bicchier d’acqua, e non un primo passo (spesso, troppo spesso) verso consumi più pesanti. Se insomma, la droga è considerata una banale compagna di viaggio della vita degli adulti, cosa vogliamo pretendere dai ragazzi? E capita pure che dopo le tragedie come quelle di Roma, arrivi qualche sapiente a spiegarci che il rimedio è legalizzare. Provi Saviano a raccontarlo alla mamma che ha denunciato il figlio: meglio in galera che drogato e assassino. Invece di affidare anche la cannabis ai monopoli, forse sarebbe il caso di recuperare con rigore il senso di ciò che fa bene, o che fa male. Di ciò che non è affatto banale. E non può essere addirittura legale.