L'Italia che rinuncia

Per noi l’importante è non partecipare. A tutti i costi. C’è un malinteso, un corto circuito da qualche tempo tra l’Italia e le Olimpiadi. Forse un errore di trascrizione della parola d’ordine con cui de Coubertin rilanciò i giochi dell’era moderna, sostenendo appunto che l’importante era partecipare e non vincere. Se tornasse a nascere, il barone avrebbe brutte sorprese dalle nostre parti. Come le abbiamo anche noi, visto che per un motivo o per l’altro, che siano estive o invernali, finisce sempre che dopo aver acceso la fiaccola, ci precipitiamo a spegnerla. Di Roma sappiamo: è arrivata la Raggi e come da progetto 5Stelle tutto è andato in cavalleria, per la presunzione che avremmo buttato via dei soldi. In effetti quando si mette mano alle grandi opere, o ai grandi eventi, spesso riusciamo a spendere molto e a rubare moltissimo. Non sempre, però. 

Torino 2006 ha cambiato volto e passo alla città, e l’Expo milanese è stata un successo tale che la capitale lombarda ha ripreso la spinta degli “anni da bere”. Questione di serietà, onestà ed efficienza al di là di ogni etichetta politica e latitudine geografica. Adesso siamo di nuovo in un pericoloso fuoripista sulle Olimpiadi invernali del 2026 in cui si sarebbero dovute combinare le esigenze di Piemonte, Lombardia e Veneto. Una quadra non impossibile se i Mondiali di calcio del 2002 si sono giocati in Corea del Sud e Giappone, se i World Championship di pallavolo in corso in questi giorni con capitale Firenze, hanno avuto un palcoscenico anche in Bulgaria. Ma noi no. Torino grillina riottosa a fare squadra, Milano orgogliosa del suo marchio, il gioiello Cortina che ricordava di avere un nome, e che nome, da spendere in tema di montagna. Voilà: il flop è servito. Di Maio sostiene che l’arrosto lo ha fatto il Coni, e senza dubbio lui e i suoi non si strappano i capelli per questo stop. Anzi. Giorgetti sta al loro gioco, alza bandiera bianca a nome del governo, chiarendo però che se qualcuno vuole andare avanti a spese sue (due regioni leghiste, guarda caso), può accomodarsi. E così oggi a presentare la candidatura azzoppata andranno Zaia e Fontana. Se fossimo quelli del Cio diremmo ai due volenterosi che li stimiamo, li apprezziamo, ma che si devono ripresentare con i genitori: cioè con un paese serio. Perché i casi sono due. O un grande evento e le opere che ne conseguono sono utili sia come immagine, cosa non trascurabile per chi ha vocazione turistica, sia in termini di infrastrutture; dunque non ci sono soldi buttati, governi o regioni che si sfilano, ma solo da controllare che le cose siano fatte a regola d’arte e i danari spesi bene. Oppure siamo sicuri che tutto sarebbe fatto male, che trionferebbero i Carminati, che non abbiamo bisogno di farci vedere nel mondo, di ammodernare stadi, fare nuove strade e quant’altro; allora tanto vale candidarsi al massimo per le olimpiadi di burraco: qualche tavolo, e via. Con una speranza. Che invece il Cio dica di sì, che si trovino le risorse, che siano investite a dovere, che nel 2026 la collettività abbia qualcosa in più, di bello e di utile. E che non solo l’Italia partecipi, ma vinca pure.