La felicità della sfida

Torno ogni tanto a sognare l’esame di maturità, quando raggiunsi il massimo sforzo di applicazione, 14 ore al giorno di studio. Un primato mai più eguagliato. E con quel sogno giovanile torna un raggio dell’antica angoscia di non saper superare la prova, un’ombra di quella tensione che si è poi ripetuta nella mia vita a ogni vigilia di conferma importante, a ogni attesa di risultato ambito, a ogni sfida accettata. Fosse il sì della creatura amata, che ancora non si pronunciava e mi faceva tremare. Fosse il premio letterario che coronasse la mia fatica. Fosse la verifica del consenso che mi faceva spendere tutto il capitale guadagnato, all’uscita di ogni mio nuovo libro. Fosse la sudata attesa dell’applauso, alla conferenza in un’università straniera, parlando in una lingua non mia. La sofferenza era poi compensata da quel sapore di felicità che nulla eguaglia, quando si è guadagnato una vittoria a prezzo di duro sacrificio. Era il miracolo della confidenza dell’attesa che Leopardi, ha cantato ne ‘Il sabato del villaggio’. Quando lo sforzo di oggi si fonde con la certezza della felicità domani, quando ‘lingua mortal non dice / quel ch’io sentiva in seno’. L’esame di maturità è un simbolo così di tutta la nostra esistenza, dove si passa da una corsa a un’altra per medicare quell’imperfezione della vita che la rende pur così bella. Nulla ci basta più, ogni volta che diventi possesso acquisito. È nella progettazione che l’avventura di vivere si fa più calda, più amabile, più nostra. La noia di chi non si pone mete, di chi non vuole accettare l’alea degli esami, rifuggendo da attese e sfide, è il mostro che veglia accanto alla caduta del desiderio. Vorrei rinfrescare queste verità a quei genitori che vanno a picchiare i professori dei loro figli, perché gli hanno insegnato bocciandoli a scuola che nulla di buono si ottiene senza fatica. Non sanno quanto male fanno e quanta infelicità procurano iniettando in vena ai loro figli un’idea della felicità senza merito.