M5s, sbandata a sinistra

Luigi Di Maio (Ansa)

Luigi Di Maio (Ansa)

Fino a ieri Luigi Di Maio era l’Andreotti del Movimento 5 Stelle. Prudente, equilibrato, rassicurante fin nell’abbigliamento. Il movimentismo che ha portato Matteo Salvini a rappresentare in Italia e all’estero l’immagine del nuovo governo lo ha tuttavia costretto a una virata clamorosa e piena di rischi. Il suo ‘decreto dignità’ ha una matrice di sinistra che non s’era mai vista nella storia repubblicana. Impensabile nel compromesso storico Moro-Andreotti-Berlinguer. Impensabile nell’Arcobaleno Prodi-Bertinotti. Perché Di Maio lo ha fatto? Perché ha traumatizzato le associazioni (Confcommercio, Confesercenti) che lo avevano appena acclamato nelle loro assemblee? Perché ha tagliato i ponti con quasi tutte le associazioni imprenditoriali allarmate dai loro centri studi che prevedono una ecatombe di contratti a tempo determinato e un’esplosione del lavoro nero se il decreto non sarà radicalmente rivisto entro l’anno? È “terrorismo datoriale” o davvero – come sostiene la gran parte degli esperti – il Paese non può consentirsi uno strappo del genere?

Di Maio aveva bisogno di una svolta a sinistra. Ma nemmeno un galantuomo come l’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano, ex dirigente Cgil, sarebbe arrivato a tanto. E meno che mai ci sarebbero arrivati Massimo D’Alema e Pierluigi Bersani, oggi in Liberi e Uguali. Il Movimento 5 Stelle è davvero un partito di sinistra radicale, come pensavano in pochi, o un movimento trasversale, come pensavano in molti? Lo capiremo nei mesi che ci separano dalla fine dell’anno. E la Lega? Che farà la Lega? Il governo non è un monocolore 5 Stelle al quale tutto sarebbe consentito. È un bicolore con la Lega che anche nella sua nuova dimensione nazionale ha nel Nord il suo ‘core business’. E lo ha in quella miriade di piccole imprese per le quali il ‘decreto dignità’ è un dito nell’occhio. 

La Lega ha imparato dagli errori della Prima e della Seconda Repubblica a non lavare in piazza i panni sporchi della maggioranza. Le piazzate identitarie servono a poco. Ma in casa i panni vanno lavati e non è difficile immaginare che il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti (numero 2 della Lega) stia giorno e notte chino sulla tinozza. Mentre la politica sull’immigrazione è compatibile con la grande maggioranza del M5S che sul tema non si è mai sbracciata nemmeno quando era all’opposizione, il ‘decreto dignità’ non è compatibile nemmeno con la più sparuta minoranza della Lega, ammesso che ne esista una. Torna quindi il tema centrale di questo periodo: quanto durerà l’intesa tra Salvini e Di Maio? Una intera legislatura o soltanto fino alle prossime elezioni europee che testeranno la forza individuale di ciascun partito? Non lo sappiamo. Ma non possiamo escludere che – pur giurandosi ogni giorno fedeltà – il Movimento 5 Stelle guardi con la coda dell’occhio a un Pd non più controllato da Matteo Renzi e la Lega a quella Forza Italia con la quale governa un numero crescente di regioni e comuni. E qui torna in gioco il Cavaliere, non rassegnato a morire dissanguato giorno dopo giorno. La scelta di Antonio Tajani come vice presidente e di un organizzatore come Adriano Galliani come uomo-macchina va nella direzione giusta. Ma non basta. Forza Italia ha bisogno di aria nuova. Le camarille interne non le hanno consentito di proporla alle elezioni del 4 marzo, se non in minima parte. Berlusconi ha poco tempo per fare la sua ultima rivoluzione politica. Altrimenti dovrà rassegnarsi ad assistere da spettatore a quella degli altri.