Giovedì 25 Aprile 2024

Il capopopolo e il doroteo

Roma, 16 giugno 2018 - Quando nel settembre del 2017 Luigi Di Maio diventò capo politico del Movimento 5 Stelle, furono in molti a immaginare che egli fosse il ‘front-man’ di Beppe Grillo (la ‘maschera’, dicevano gli avversari). Non era vero. Di Maio ha dimostrato nei mesi successivi di essere davvero il leader del Movimento al punto di poter liquidare l’8 giugno scorso la proposta del Garante sulla sorte dell’Ilva («Mettiamo un parco al suo posto») come opinione personale. Sul vertice del Movimento incombe sempre il ruolo della Casaleggio & Associati, mai chiarito fino in fondo. Ma Di Maio è non solo formalmente il responsabile del M5s. Onori e oneri. L’onore di essere diventato un superministro è stato soffocato nel giro di due settimane da oneri pesantissimi. La Lega è partito di governo (anche stando all’opposizione) almeno dalla fine del ’99, quando Bossi firmò il ‘Patto di Linate’ con Berlusconi rientrando nel centrodestra dopo la sfortunata parentesi secessionista. Il Movimento 5 Stelle è per sua natura partito rivoluzionario, o comunque “partito del cambiamento”. Bene. Da quando il primo giugno è nato il governo Conte, Di Maio sta comportandosi con la compostezza e la prudenza di un vecchio doroteo, mentre Salvini non ha mai smesso la felpa del capopopolo.

Nel ’94– entrando nella stanza di Bobo Maroni al Viminale – vidi accanto alla scrivania che fu di Scelba e di Taviani un poster della sua band. Ma la sua rivoluzione si fermò lì: l’idea di abolire i prefetti restò appunto soltanto un’idea accantonata quando nel 2008 Maroni tornò in quelle stanze. Salvini è un uragano vivente. Scelba, che ha la fama di cattivissimo, al confronto era un bonaccione, anche perché giocava di sponda con De Gasperi. Il decisionismo del ministro dell’Interno sugli immigrati gli sta portando consensi che travalicano lo schieramento di centrodestra, sono stati ben concimati dalla malagrazia di Macron e gli fanno rosicchiare giorno per giorno consensi in quell’ala destra del Movimento 5 Stelle che è stata sempre confinante con la Lega. Morale: le elezioni amministrative stanno andando come sappiamo (i ballottaggi porteranno altri sindaci al centrodestra) e i sondaggi a livello nazionale riducono a 2/3 punti la differenza di 15 tra Lega e 5 Stelle registrata il 4 marzo.

Si aggiunga la tegola dell’inchiesta sullo stadio romano. Non sappiamo che cosa resterà alla fine di questo processo. Ma ci sono alcuni punti politici fermi. Il costruttore Parnasi fa parte di una famiglia storicamente legata ai Ds e al Pd. Poiché gli uomini d’affari hanno il periscopio che gira continuamente, finanziava (legalmente) la Lega grazie a un vecchio rapporto personale con Salvini. Ma il suo cuore ha preso presto a battere per i Cinque Stelle. Suo uomo di mano (Mr.Wolf) era il potentissimo avvocato Lanzalone, presidente della più importante municipalizzata romana, in rapporti strettissimi con Casaleggio, Di Maio, il ministro della Giustizia Bonafede e altri esponenti del vertice stellato. Anche se per ipotesi Lanzalone fosse prosciolto, il segno di una presenza così ascoltata e invasiva non resterà politicamente senza conseguenze, nel partito e nell’elettorato. Di Maio dovrà perciò comportarsi come i pompieri dinanzi a un grande incendio: prima deve circoscriverlo, poi spegnerlo. La stoffa di un leader si vede infatti nei momenti di massima difficoltà.