Mercoledì 24 Aprile 2024

Il dovere di educare

MA CHE COSA sappiamo davvero dei nostri figli? E soprattutto: siamo sicuri di non aver spesso abdicato al nostro dovere di educarli, che vuol dire anche dir loro dei no, controllarli, pretendere il rispetto dell’autorità? Due notizie – il sequestro di telefonini in una scuola media e una proposta di Salvini – e un sondaggio ci mettono di fronte a una realtà difficile, e alle nostre responsabilità.

Eravamo abituati alla polizia che entra con i cani antidroga nei licei: ma alla polizia che irrompe in una media inferiore e sequestra i cellulari a bambini di 11, 12 e 13 anni, francamente no. La notizia che arriva da Lodi ci sorprende, dunque: ma diciamo la verità, ci sorprende anche perché non vogliamo fare i conti con la realtà; perché ci illudiamo, o fingiamo di illuderci, che i nostri figli siano ancora in una sorta di campana di vetro che li protegge, li preserva da un mondo che è lontano anni luce da quello della nostra infanzia. E invece tutto è cambiato, e l’uso o meglio l’abuso degli smartphone ha scaraventato tutti, bambini compresi, in una dimensione in cui ogni cosa è deformata, sconvolta: dalla conoscenza della sessualità ai rapporti fra compagni di classe. Gira di tutto, ormai, sugli smartphone dei più piccoli: tanto che una preside, come quella di Lodi, ha ritenuto di chiamare la polizia.

Perché siamo arrivati a questo punto? Certo non è colpa dei bambini, e neppure si può dire che sia colpa della tecnologia, la quale è solo un concetto astratto, in questo caso. C’è invece un gigantesco problema educativo, di cui la nostra generazione è in gran parte responsabile. Dal sondaggio di Antonio Noto, che trovate a pagina 6, emerge fra l’altro che solo il 10 per cento dei genitori controlla i telefoni dei figli minorenni. E solo il 27 per cento degli italiani (adulti) è consapevole che quel che parte dai nostri telefoni può poi essere diffuso da altre persone.

Il problema non è la tecnologia, ma l’aver abdicato al dovere di educare, che vuol dire anche dire dei no (ad esempio, un «no» al telefonino a dieci anni o undici anni), che vuol dire anche imporre un limite di tempo nell’uso dello smartphone (tiranno anche a tavola...), che vuol dire non difendere i propri figli quando prendono un quattro o una nota, che vuol dire insomma ristabilire l’elementare ma dimenticato concetto dell’autorità. Se perfino Mario Capanna, qui intervistato da Luigi Caroppo, invoca «pugno di ferro, regole rigide», e dice che «se uno non studia va rimproverato punto e basta», vuol dire che davvero la prima emergenza nel nostro Paese, oggi, non è né l’economia né la politica, ma l’educazione.