Peccato originale

Sempre figlia di Eva è la femmina, nel profondo della mentalità italica. Quella Eva che fu colpevole seduttrice di Adamo, corrotta dal demonio e corruttrice del maschio. Non possiamo non ricondurre a questa pervicace concezione maschilista le due sentenze più recenti, su due femminicidi. Nel secondo caso di fronte alla richiesta dei 30 anni di pena del pm il giudice ne ha comminati all’assassino solo 16, con una motivazione che non è più la «tempesta emotiva» evocata ad attenuare la colpa nel primo, ma è la responsabilità di una vera «delusione» sentimentale. In modo strisciante rientra, dissimulato nei meandri di uno sforzo di capire la genesi del delitto, il criterio del delitto d’onore, che così a lungo ha caratterizzato la mentalità nei rapporti fra i due sessi, come testimonia la letteratura da Verga, alla Deledda, a Brancati, alla Morante.

Da dove viene la concezione che nutre al fondo il costume e il pensiero nostrano? Credo si debba partire da lontano, da un certo misoginismo paolino, che nutre il cristianesimo delle origini negando l’accesso al sacerdozio alla donna, tuttora osteggiato dalla Chiesa cattolica, a differenza del protestantesimo e di una parte della chiesa ortodossa. C’è qualcosa d’impuro e adultero nella donna, che secondo le Scritture prima di essere moglie di Adamo nei panni di Eva, fu Lilith, una creatura ancora più negativa, ripudiata e cacciata da Adamo poiché non voleva sottomettersi all’uomo ma sovrastarlo. Lungo i secoli l’immagine della strega eredita il sinistro retaggio di Lilith, relegando l’intelligenza femminile a intimità col diavolo.

Emblematica una splendida figura di matematica, astronoma e filosofa, Ipazia di Alessandria, del IV secolo d.C. che subì una fine atroce incitata dai fanatici seguaci del vescovo Cirillo, da Giovanni Paolo II poi santificato. «Che la piasa, che la tasa, che la staga in casa»: così il veneto papa Pio X raccomandava alla donna, in tempi più vicini. Se su questo conglomerato ereditario aggiungiamo il maschilismo del ventennio, che voleva vedere nel duce il gran gallo, emblema virile dell’Italia fascista, sarà un poco più chiaro in che ambito si sia creata una mentalità tanto dura a morire.