Giovedì 18 Aprile 2024

Fine vita. Sempre liberi di scegliere

Una consulta lungimirante aveva offerto, ad un Parlamento rivelatosi miope, una opportunità colpevolmente non colta. Il caso Cappato e le vicende di Welby e di Eluana Englaro, pur molto diversi fra loro, avevano un tratto comune: la necessità di affermare che quello alla vita è un diritto, non un dovere. È la dialettica fra valori trascendenti e diritti e libertà della persona. Per Cappato la Consulta era stata chiamata, di fatto, a sancire quello che la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) riconosce come «il diritto a decidere con quali mezzi ed a che punto la vita finirà»; dunque l’esercizio di una libertà.

E' la libertà sulla quale si fonda il diritto di autodeterminazione. Del quale è parte il diritto costituzionale a rifiutare le cure, anche salvavita. Ne deriva, da queste ed altre norme costituzionali, quali gli articoli 2, 13 e 32 della Carta costituzionale, un generale principio, appunto, di libertà di autodeterminazione, idoneo a legittimare la decisione di porre fine alla propria vita, quando sommamente degradata. Anche sulla base delle richiamate norme costituzionali, che tutelano il diritto individuale alla vita come degna d’essere vissuta.

A ragione il pm di Milano, nel caso di Dj Fabo, aveva giustificato la richiesta di archiviazione, o altrimenti il dubbio di costituzionalità, qualificando quella scelta suicida come esercizio del diritto alla dignità della vita, e considerando conseguentemente lecita la condotta di Cappato buon samaritano. Le vicende processuali di merito si erano poi dipanate in modo più complesso, passando la palla alla Consulta. La quale aveva scritto una pagina alta, disconoscendo le tesi di chi, invocando astratti valori, negava la dignità della scelta – e i diritti – di Dj Fabo, e così criminalizzava Cappato, sulla base di una norma incongrua: l’art. 580 del Codice penale, che parificava la ‘istigazione al suicidio’ al mero ‘agevolarne in qualsiasi modo la esecuzione’ (dunque, anche il semplice ausilio ininfluente sulla decisione suicida).

La consulta, posta di fronte alla eventualità di una dichiarazione di incostituzionalità troppo ampia, aveva accordato tempo al legislatore per consentirgli di restringere il campo del lecito ‘aiuto’ al suicidio, eventualmente limitandolo soltanto a quello del malato terminale o con vita degradata. Ma il Parlamento non ha saputo (voluto) cogliere la esortazione a correggere «l’attuale assetto normativo» che «lascia priva di adeguata tutela determinate situazioni costituzionalmente meritevoli di protezione e da bilanciare con altri beni costituzionalmente rilevanti».

Nell'inerzia del legislatore ordinario, la Corte dovrà ora operare avendo a disposizione la semplice forbice della incostituzionalità; col rischio che il taglio lasci un varco troppo grande. Ma la decisione della Consulta potrà precisare che la norma è incostituzionale «nella parte in cui…», così supplendo alle mancate scelte di un legislatore inerte. Che dovrebbe saper distinguere fra diritto alla vita e dovere di vivere.