Giovedì 18 Aprile 2024

Nel 1960 la morte di Fausto. Quando l'Italia pedalava unita dietro a Coppi

Ormai sono una minoranza gli italiani che hanno conosciuto Coppi vivo. Il tempo passa e ci passa sopra, eppure la leggenda del Campionissimo non è mai morta. È sopravvissuta all’addio di sessanta anni fa. E c’è un motivo. Per la generazione del Miracolo, Fausto è stato ben più di un ciclista. Era come se una intera nazione si aggrappasse idealmente al suo sellino. Coppi pedalava e si tirava dietro le ansie, le speranze e le angosce di un popolo. Per questo l’Italia dei nostri antenati si identificava con le sue imprese.

I cinque Giri, i due Tour, la maglia iridata, le grandi classiche: tutto concorreva ad alimentare la collettiva voglia di rinascita. Meglio: di resurrezione. C’era persino, come dimostrano i racconti dei nonni, una sorta di spiritualità, nelle avventure e nelle disavventure umane e agonistiche del personaggio. Coppi emanava una dolorosa forza mistica: tra le pieghe e le piaghe del suo corpo, si coglieva la sofferenza di un Paese disperatamente aggrappato ad una ipotesi di futuro migliore. Anche nelle contraddizioni, negli amori proibiti per l’epoca, Fausto era perennemente in fuga: scappava da un presente che non gli piaceva, come non piaceva ai suoi connazionali.

Ecco, a pensarci bene forse non è un caso che il Campionissimo si sia reso irraggiungibile all’alba degli anni Sessanta. Cioè quando la missione sua era finita, perché la rotta era stata tracciata e di altri idoli un’Italia meno impolverata cominciava ad avvertire il bisogno. Coppi aveva dato un’anima alla gente umile che non accettava più l’umiliazione. La sua faccia era una foto di gruppo: ci scorgevi la fame, la guerra, le macerie, il desiderio di una ripartenza. Aveva esaurito il suo compito, quando la malattia se lo portò via, sottraendolo al martirio dell’invecchiamento. Oggi, nel 2020, in un mondo nuovissimo e spesso alieno nonché alienato, vien da chiedersi in quale eroe popolare potrebbe mai identificarsi l’Italia. Temo che una risposta non ci sia, nel senso che il tempo post moderno è vuoto, ci sia o non ci sia il benessere economico. Coppi, con Bartali e con i calciatori del Grande Torino, aveva saputo ricondurre ad unità i sentimenti collettivi, proprio perché prevaleva la ricerca di valori comuni, condivisi. Oggi assistiamo invece al dominio esasperante della contrapposizione, anche feroce. E uno come Coppi manca tantissimo, anche a noi che non l’abbiamo mai conosciuto.