Martedì 23 Aprile 2024

Le mosse dell'ex leader M5S. Cosa farà Di Maio da grande

A un amico che il 22 gennaio gli manifestava il suo dispiacere per le dimissioni da capo politico del M5S, Luigi Di Maio rispose con un sorriso: “E’ solo l’inizio…”. Si capì subito che quelle dimissioni alla vigilia di elezioni regionali prevedibilmente disastrose erano soltanto un diversivo in attesa di una nuova discesa in campo per la riconquista del potere. Il Movimento monolitico schierato a testuggine contro la Casta e il Sistema non esiste più, né potrebbe esistere. Quando un terzo dei deputati e dei senatori sono tuoi, fatalmente diventi tu Casta e Sistema. S’è visto con Tap, Tav, Ilva. 

Si vede in questi giorni con il drammatico appiglio del ministro Bonafede a un brandello di prescrizione per capire che sotto ogni latitudine il partito di governo cessa di essere partito di lotta. Questa lacerazione ha portato il M5S a una nettissima divisione tra chi è ormai nell’orbita del Pd, a cominciare dal premier Conte, e chi, come Di Maio, vuole tornare alla terzietà rivoluzionaria delle origini. Per non restare schiacciato tra l’ala governista e quella di rivolta estrema guidata da Di Battista e – seppure espulso – Paragone, Di Maio ha invocato la piazza per protestare contro il ripristino dei vitalizi: battaglia identitaria e anti casta per eccellenza.

Da ministro degli Esteri si troverebbe certo in difficoltà se al rafforzarsi del ciclo economico negativo, i Di Battista e i Paragone cominciassero a martellare Palazzo Chigi con una politica anti europeista che Salvini, nella necessità di non tagliare troppi rapporti in vista di un possibile approdo al governo, potrebbe cavalcare con minor vigore. Impossibile che una situazione del genere possa durare fino al 2023. In altri tempi una scissione si sarebbe già consumata. Oggi la titolarità del simbolo è di Grillo e Casaleggio. A chi andrebbe? Forse Conte, legato al Pd, non ne avrebbe bisogno. Di Maio sì e potrebbe riportare il M5s a un’opposizione rigeneratrice. Elezioni alle viste non ce ne sono. È vero che a fine marzo il Parlamento sarà delegittimato dal referendum che lo ridurrà a 600 membri dai 945 attuali. Poi bisognerà ridisegnare i collegi e adattarli alla nuova legge elettorale. I poltronisti sperano di tirare avanti per un anno e mezzo, quando l’avvio del semestre bianco non consentirà al capo dello Stato di sciogliere le Camere. Ma rischia di essere una via crucis in un Paese fermo.