Coronavirus, appelli ignorati. Il politicamente corretto ci è costato caro

Coronavirus (Ansa)

Coronavirus (Ansa)

Due settimane fa quando i governatori del Nord, con buonsenso, hanno chiesto di mettere in quarantena i bambini di ritorno dalla Cina, si sono ritrovati in una gogna mediatica. Tra accuse di razzismo e lazzi sull’incompetenza scientifica, sono stati sbeffeggiati perfino dal presidente del Consiglio, il callido Giuseppe Conte: "Chi ha ruoli politici ha anche il dovere, la responsabilità di dare messaggi di tranquillità e serenità. La situazione è sotto controllo".

Ieri mattina, leggendo le notizie da Codogno, mi sono ricordato di due cose. La prima. Nelle stesse ore in cui in il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, si faceva fotografare nella Chinatown meneghina per solidarietà con i suoi elettori cinesi, ho ricevuto un’email da Erez Boas, rettore dell’USI, l’Università della Svizzera italiana di Lugano, dove insegno: "L’USI richiede a tutti i membri della comunità accademica, compresi gli studenti, di ritorno dalla Cina di studiare/lavorare da casa per un periodo di 14 giorni. Il conteggio inizia dal giorno in cui si arriva in Svizzera. Se si sviluppano i sintomi di un’infezione respiratoria (febbre, tosse, fiato corto), restare a casa e contattare immediatamente, prima per telefono, un medico o un istituto sanitario".

Lugano, 80 km. da Milano… La seconda. Ho una figlia medico, che, dal momento in cui si è saputo del Coronavirus, mi ha detto: "Bisogna isolare tutti coloro che tornano dalla Cina. Subito! Non basta misurare la febbre all’arrivo in aeroporto: uno in quel momento potrebbe non averla. Ma poi…". Aveva ragione lei. Avevano ragione i governatori. Ma in Italia, dove i cinesi sono perfettamente integrati da decenni, siamo stati capaci di trasformare una questione virale in una questione razziale. E, ora, paghiamo il conto (salato) del politicamente corretto.