Il caos delle decisioni. Ora cercasi modica serietà per una legge

Piccolo è bello, si diceva dell’industria prima della globalizzazione. Piccolo è legale, si potrebbe dire delle piante di cannabis dopo la Cassazione. Giusto. Che volete che sia qualche vasetto striminzito sul balcone? Roba che serve per la famiglia come un pugno di salvia. Al massimo per qualche canna da offrire agli amici a San Silvestro, sperando in anni e in raccolti migliori. La sentenza della Corte suprema in fondo scandalizza nella stessa minima quantità che viene consentita a chi coltiva a livello domestico. Ciò che meraviglia, semmai, è che si tratta di una decisione esattamente contraria a quanto stabilito dalla Corte costituzionale, e a seguire dalla giurisprudenza consolidata. Ed è ancora più stupefacente che sbuchino da ogni parte nel nostro Paese dei tentativi di dettare legge in materia.

Basterà ricordare lo sventato blitz in Finanziaria, con una norma ’a sostegno’ dei coltivatori di canapa, che di fatto dava il via libera ai negozi dove si vende la marijuana light. Tentativo goffo, ma con una qualche possibilità di incidere sul serio, visto che in Italia le leggi non le fanno i giudici, anche i più imparruccati, ma il Parlamento. Il problema, però, è che una norma organica che stabilisca chi può coltivare cosa o quanto, di fatto ancora non c’è. Così, ognuno dice la sua. Anche i più autorevoli come la Cassazione, che riapre opportunità negate, consegnando a sua volta alla discrezionalità di altri giudici la valutazione dei casi singoli. Cos’è "una coltivazione di minime dimensioni svolta in forma domestica"? Quante piante? Quante foglie? E in caso di famiglia numerosa? Insomma, un altro poderoso motivo di confusione in una materia delicata. In attesa della legge fatta da chi la dovrebbe fare: almeno con modica serietà.